Ignazio Silone, un cristiano della soglia: tra Giovanni XIII e Celestino V

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Un grande ricordo di Silone preme sul cuore

Dietro a uno studio sul pensiero di un importante autore c’è sempre una storia di sofferenza fatta di tante croci piccole o grandi: difficoltà nel decifrare i problemi che questi pone, paure di poter tradirne la verità, immancabilmente connotata da aspetti autobiografici (come per Silone) e, pertanto, difficile da indagare con le sonde di procedure conoscitive che si affidano ai soli canoni dell’oggettività. Ma dietro a uno studio non manca nemmeno una storia di consolazioni che la storia dolorosa mitiga e lenisce: trovi sempre chi ti aiuta, chi ti consiglia, chi ti suggerisce come uscire da imbarazzanti cul de sac, chi t’invita a moderare il giudizio e chi ti slancia verso ermeneutiche inedite e sorprendenti, chi ti riporta perfino nei limiti di un linguaggio ironico o t’incoraggia a dar più colore a verbi e aggettivi.

Non dimenticherò mai i due preziosi colloqui avuti con Silone: uno a Pescara in occasione della prima nazionale de L’avventura d’un povero cristiano da parte della compagnia teatrale La Giostra, quando gli confidai l’idea di scrivere sul tema L’esperienza religiosa e il problema morale di Ignazio Silone. Egli si mostrò contento al mio progetto che, di fatto, andò avanti: il titolo definitivo della tesi in Teologia depositato presso la Pontificia Università Gregoriana (Roma) sarebbe stato alla fine: Il cristianesimo di Ignazio Silone.

Egli si mostrò molto interessato alla mia impresa, fece il gradito dono (fatto a pochi, precisò) del suo numero telefonico. Così ebbi modo di telefonargli più volte e di fargli visita nella sua abitazione a Roma, in via Ricotti, vicino al Verano: una lunga e interessante conversazione che gustai moltissimo e di cui presi puntuale nota, uscendo dalla sua casa.

Giovanni XXIII come Celestino V

Ricordo, fra l’altro, l’ammirazione con cui egli parlava di Giovanni XXIII e l’insistenza che egli metteva nel discorso per dire che il pontificato aveva provocato un grande salto di qualità nell’esistenza umana e cristiana di Angelo Giuseppe Roncalli. Nel suo discorrere si coglieva il tentativo di stabilire un velato paragone tra Papa Roncalli e il suo Celestino v.

La stessa percezione ebbi, molti anni più tardi, leggendo un bel testo di Hannah Arendt: Il Papa cristiano. Umanità e fede in Giovanni XXIII (Bologna 2013). Nel breve testo la filosofa ebrea si mostra molto impressionata dalla fede di Roncalli: «La forza straordinaria di questa fede non fu mai più evidente che negli “scandali” che essa innocentemente causò, e la statura di quest’uomo può essere abbassata solo se si omette l’elemento dello scandalo». Quest’elemento non può essere eliminato: L’avventura di un povero cristiano di Silone è una vera antologia di “scandali” celestiniani del tutto simmetrici a quelli roncalliani. Hannah Arendt chiama «cristiano» Giovanni XXIII in parallelo col «povero cristiano» con cui Silone chiama Celestino v prima che tornasse a essere fra Angelerio del Morrone, rinunciando alla sua impossibile avventura pontificale perché convinto che «è difficile essere Papa e rimanere buon cristiano».

Silone un maestro che evoca altri maestri

Di quell’incontro indimenticabile ricordo con piacere il mio buffo barcollare linguistico nel rivolgermi a tentativi a Silone: all’inizio lo chiamai “dottore”, qualche volta “professore”; poi, pensando di usare termini impropri, mi avventurai nel chiamarlo, per il resto della conversazione: don Ignazio. Non mi venne affatto in mente che il modo più acconcio fosse quello di chiamarlo “maestro”. Ma ora questo è il titolo che uso per lui e per motivare il ritorno a lui.

Chiunque insegni ha un diritto perfino legale a essere chiamato insegnante, ma il titolo di “maestro” (di cui Tommaseo con enfasi evidenzia il suo significato di magis-ter: uno che è tanto più grande di altri) lo si merita sul campo: tanti possono insegnare filosofia, teologia, pedagogia, scienze diverse, ma non per questo li si chiama filosofi, teologi, pedagogisti, scienziati, ossia maestri. Silone è un maestro di prim’ordine: certo lo è di letteratura, ma ancora di più è un maestro di vita, di valori, di umanesimo profondo: lo è a tal punto che la sua sapienza umanistica sapora di tutto.

Una domanda s’impone: maestro è il più che si possa dire di Silone? San Paolo VI, nel cuore del Novecento ebbe a dire che «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Discorso ai Membri del Consilium de Laicis, 2 ottobre 1974). Papa Montini, però, non ha affermato di poter fare a meno dei maestri, ma si è augurato che questi siano testimoni. Forse egli si riferiva solo all’ambito cristiano, ma quell’affermazione ha una valenza più ampia, poiché di fatto è vero che esiste anche la testimonianza di una spiritualità intesa in senso ampio.

Silone è maestro, ma è anche testimone e si propone, nella sua scelta, quella precedenza montiniana: la testimonianza anzitutto. Con la lucidità che lo distingueva, Silone più volte definì il suo impegno di uomo e di scrittore nella prospettiva di un’ampia responsabilità etica. La definizione più completa è, forse, la seguente: «Se la mia opera letteraria ha un senso, in ultima analisi, è proprio in ciò: a un certo punto scrivere ha significato per me assoluta necessità di testimoniare, bisogno inderogabile di liberarmi da un’ossessione, di affermare il senso e i limiti di una dolorosa e definitiva rottura e di una più sincera fedeltà» (Uscita di sicurezza, Firenze 1965). Abbiamo bisogno di maestri: dobbiamo tornare a loro e dobbiamo lasciare che essi tornino a noi. È di pochi mesi fa uno degli ultimi gridi accorati per chiedere il ritorno dei maestri: è un ritorno che va meritato ed è, intanto, un’invocazione che va ascoltata.

Un cristianesimo “abruzzese”?

La qualificazione di “abruzzese” al cristianesimo di Silone vuole significare che il cristianesimo s’incarna necessariamente in forme storiche, non consegnandosi però, mai in pienezza, ad alcuna di esse e patendo, altresì, talora di più talaltra di meno, per le angustie delle vie culturali, per la scarsezza e la rigidezza dei codici linguistici legate a tali forme. Nell’opera siloniana “abruzzese” evoca anzitutto la varietà di colori tenui e forti con cui questa forma di religiosità popolare ha espresso il suo ancoraggio alla fonte cristiana: il senso della provvidenza e della croce, la coralità del credere, l’austerità di vita, il primato della coscienza. Ma “abruzzese” indica anche alcuni limiti della religiosità di popolo che fa da sfondo alle storie siloniane, il primo dei quali, denunciato con insistenza dallo stesso Silone, è quello di un’etica incidente nella vita privata ma piuttosto indifferente in quella pubblica, assieme alla tendenza a ridurre il cristianesimo a etica. Meno evidenti sono l’assenza della dimensione trascendente e la riduzione di Gesù a sola figura storica, sulle quali Silone insiste specie nei suoi romanzi.

L’abruzzesità ha una diffusa presenza nei tracciati tematici dei romanzi, nel tono di voce dei suoi protagonisti, perfino in quello delle comparse, ma soprattutto nell’anima del popolo che, in fondo, è il personaggio dominante, a cui Silone affida non tanto la parte principale, quanto quella di una storia di vita sostanzialmente unitaria che trova il suo punto focale nell’esigenza di una fedeltà piena agli appelli dell’utopia, che è il verbum abbreviatum del suo messaggio umano, fiducioso e dolorante, corale e intriso di solitudine e di mestizia, cristiano e socialista, immanente e con propensioni escatologiche.

Un cristianesimo venato della sottile tristezza

Si è ora accennato a una venatura di tristezza dell’utopia di Ignazio Silone: è un colore del suo cristianesimo “abruzzese”; questo è un filo forte di tutte le sue opere, che conoscono la speranza, ma sempre mista a pacata e controllata malinconia, a cominciare da Fontamara, un libro matriciale di tutta la sua opera perché «si propone come un crogiuolo di essenze primigenie. C’è tutto: la fonte, intesa come alimento primo delle radici; amara, a indicare l’amarezza dell’alimento delle radici, e dunque della vita; la via della nascita, indicare come non solo la nascita, ma anche il cominciamento della vita (la via) siano pervase dalla forza rovinosa di un’amarezza senza fine; infine, la fonte intesa come ristoro delle bestie, non possibile ai cafoni, “razza a sé” abitatori, da sempre, fratelli del vento e della pioggia e del sole cocente, nella grotta della miseria, che viene subito dopo quella del nulla» (F. Di Gregorio, Lettura di «Fontamara», in «Critica letteraria», 16, 1988, 322). Prima degli aggettivi, è importante il sostantivo: Silone è ancorato in modo vitale al cristianesimo. La sua formazione cristiana e il tessuto ideale evangelico restano discretamente e tenacemente presenti nella sua opera. Silone ricercò una pratica sociale del cristianesimo e, contemporaneamente, un’anima e una speranza cristiana del socialismo. Quest’innesto non costituì una sintesi, non fu pacifica e comoda, ma si risolse in una tensione interiore e progettuale altissima, perciò non senza rischi oggettivi (per il cristianesimo ad esempio) e non senza sofferenza personale.

Il sentire cristiano è la filigrana, se non la trama, di tutta l’opera di Silone. «Questo uomo che ha legato il suo nome alla storia e alla polemica politica di quasi cinquant’anni — scrive Vigorelli — e questo scrittore che ha scritto i suoi libri parallelamente alle sue esperienze politiche e che deve la sua fama al loro messaggio social-politico, risulta uno scrittore essenzialmente religioso. Quello che pareva un naturalismo è un realismo evangelico, e quello che risultava un populismo è piuttosto un messianismo» (Silone e l’avventura d’un povero cristiano, «Il Tempo» del 30 aprile 1968).

Cristiano della soglia

Simone Weil era venerata da Silone e credo che abbia ispirato il suo romanzo postumo: Severina, a cura di Darina Silone (Milano, 1981). Da Silone sentii per la prima volta il suo nome e mi intrigò tanto da leggere subito, di fila, le sue opere maggiori e quelle dei suoi conoscitori più affidabili: il filosofo Gustave Thibon e il padre domenicano Joseph-Marie Perrin. Come è noto, la Weil, benché di sentimenti profondamente cristiani, non ha mai compiuto il passo di entrare nella Chiesa cattolica. Ecco allora il titolo che non si è lasciato cercare, ma mi ha cercato: “Ignazio Silone, cristiano della soglia”. Simone Weil non è entrata nella Chiesa, ma non ne è restata lontana. Silone, uscito dalla Chiesa in età giovanile, non vi è più rientrato, ma anch’egli, mi sembra, non si è appostato in posizioni lontanissime: in un qualche modo, le si è fermato vicino, sulla soglia, appunto, sebbene il cristianesimo di Silone sia parziale, anche rispetto all’esperienza cristiana weiliana.

Un segno vistoso di questo consiste nel fatto che con gli anni pare che, per Silone, tra il suo “socialismo libertario” e il cristianesimo si operasse un avvicinamento, una specie di sintesi. Sensibile a certe voci nuove del socialismo europeo, in anticipo di oltre un trentennio su quella che sarebbe stata la riflessione della teologia cristiana circa il significato religioso del progresso nelle sue varie espressioni, Silone coglie nell’utopia il punto d’arrivo e di congiunzione delle sue speranze religiose e sociali (cfr. A. Scurani, Il punto d’arrivo d’Ignazio Silone, in «Letture 33», 1978, 601). Ma il cristianesimo non coincide con l’utopia, anche se sa comprendere dentro l’arco della sua escatologia la parabola utopica. Quel che manca a Silone di cristianesimo gli ha impedito di varcare la soglia della Chiesa per rientrarvi; ma stare sulla soglia è già, in qualche misura, stare nella casa: per Silone appartenere alla Chiesa, almeno parzialmente.

L’approccio al cristianesimo a-ecclesiale di Silone va compiuto prevalentemente per via esistenziale. Fra l’altro, che nell’affermazione del cristianesimo senza chiesa o del Regno senza chiesa Silone volesse restare ad un livello puramente esistenziale, lo si deduce da tanti particolari. Egli non ha preteso d’imporre ad altri il suo punto di vista, ma, cionondimeno, lo ha difeso come si difende una posizione che si ritiene non personale, ma oggettiva. Basti ricordare una sua risposta ad Alessandro Scurani, dopo una critica di questi a L’avventura d’un povero cristiano (cfr. «Letture», 1968, 427): «In quanto alla sua confutazione d’un certo modo d’intendere il Regno di Dio, lei sa meglio di me che non è una trovata personale. È una discussione che rimane aperta da molti secoli e non è vicina a concludersi, senza dedurne che una delle parti sia in malafede» (A. Scurani, Il punto d’arrivo di Ignazio Silone, in «Letture», 33, 1978, 601).

«Sentii quanto fossi legato a Cristo»

L’entrata del giovane Silone nel Partito comunista segna una svolta, una rottura dei suoi modelli di vita e, soprattutto, uno strappo da quella storia cristiana che aveva a lungo ramificato in profondità nella sua anima. Egli ne parla con una partecipazione e con un dolore che non sarà mai del tutto placato: «Erano ancora i tempi in cui il dichiararsi socialista o comunista equivaleva a gettarsi allo sbaraglio, rompere con i propri parenti e amici, non trovare impiego. Le conseguenze materiali furono dunque deleterie e le difficoltà dell’adattamento spirituale non meno dolorose. Il proprio mondo interno, il medioevo ereditato e radicato nell’anima e da cui, in ultima analisi, derivava lo stesso iniziale impulso della rivolta, ne fu scosso fin nelle fondamenta, come da un terremoto. Nell’intimo della coscienza tutto venne messo in discussione, tutto diventò un problema» (A. Ruggeri, Don Orione, Ignazio Silone e Romoletto, Tortona 1981).

Il profondo sconvolgimento interiore causato dall’uscita dalla Chiesa è la prova più credibile di quanto fosse intenso il suo sentire cristiano. In Silone non c’è nulla di superficiale, meno ancora nella sua esperienza cristiana, sia prima che dopo l’abbandono della Chiesa. Per questo motivo egli incute rispetto: è soprattutto nel suo dramma religioso che egli s’impone a un’attenzione piena, poiché apre la sua anima, insieme con pudore e senza reticenze, permettendo di far scorgere ferite e il dolore di cui palpita: «Fu nel momento della rottura che sentii quanto fossi legato a Cristo in tutte le fibre dell’essere. Non ammettevo però restrizioni mentali. La piccola lampada tenuta accesa davanti al tabernacolo delle intuizioni più care fu spenta da una gelida ventata. La vita, la morte, l’amore, il bene, il male, il vero cambiarono senso o lo perderono interamente. Tuttavia sembrava facile sfidare i pericoli non essendo più solo nell’azione. Ma chi racconterà l’intimo sgomento per un ragazzo di provincia, mal nutrito, in una squallida cameretta di città, della definitiva rinuncia alla fede nell’immortalità dell’anima? Era troppo grave per poterne discorrere con chicchessia; i compagni di partito vi avrebbero forse trovato motivo di derisione, e gli altri amici non v’erano più. Così, all’insaputa di tutti, il mondo cambiò aspetto» (ivi).

«… et in hora mortis nostrae»

Negli ultimi tempi della sua vita, Silone fu costretto a lunghe degenze, concluse da quella, assai lunga, vissuta a Ginevra, durante la quale esperimentò un’illusoria e momentanea guarigione. Una crisi improvvisa lo porterà al coma il 18 agosto 1978, davanti a Darina, che ci riferisce le sue estreme parole: Maintenant c’est fini. Tout est fini. Je meurs. Nel testamento Silone ha espresso il desiderio, di fatto ascoltato, di essere sepolto ai piedi del vecchio campanile di San Berardo, nel suo paese natio, con una croce di ferro appoggiata al muro e in vista del Fucino, da lui disegnata. «(Credo) Spero di essere spoglio d’ogni rispetto umano e d’ogni altro riguardo d’opportunità, mentre dichiaro che non desidero alcuna cerimonia religiosa, né al momento della mia morte, né dopo. È una decisione triste e serena, seriamente meditata. Spero di non ferire e di non deludere alcuna persona che mi ami. Mi pare di aver espresso a varie riprese, con sincerità, tutto quello che sento di dovere a Cristo e al suo insegnamento. Riconosco che, inizialmente, m’allontanò da lui l’egoismo in tutte le sue forme, dalla vanità alla sensualità» (Severina).

Il testamento di Silone riluce, all’improvviso, di tenui bagliori che lasciano trasparire qualcosa della sua sensibilissima anima. Vi si coglie anche il riflesso del suo cristianesimo coscienziale, semplificato, sintetizzato nel rapporto col Cristo, al quale sente di dover render conto delle sue scelte, rispetto al quale tenta un essenziale bilancio della sua esistenza inquieta, vissuta sempre sul filo di una lama taglientissima di una coscienza vigilante ma senza complessi farisaici, rigorosa ma senza durezza: «Forse la privazione precoce della famiglia, le infermità fisiche, la fame, alcune predisposizioni naturali all’angoscia e alla disperazione, facilitarono i miei errori. Devo però a Cristo, e al suo insegnamento, di essermi ripreso, anche standone esteriormente lontano. Mi è capitato alcune volte, in circostanze penose, di mettermi in ginocchio, nella mia stanza, semplicemente, senza dire nulla, solo con (forte) sentimento d’abbandono; un paio di volte ho recitato il Pater noster; un paio di volte ricordo di essermi fatto il segno della Croce».

Registriamo la dichiarazione di Silone posta in limine vitae, sull’estrema soglia dell’esistenza, quando le parole che escono dal cuore sono più serie e più sincere: «Ma il “ritorno” — continua — non è stato possibile, neanche dopo gli “aggiornamenti” del recente Concilio. La spiegazione del mancato ritorno che ne ho dato è sincera. Mi sembra che sulle verità cristiane essenziali si è sovrapposto (sic) nel corso dei secoli un’elaborazione teologica e liturgica d’origine storica che le ha rese irriconoscibili. Il cristianesimo ufficiale è diventato un’ideologia. Solo rifacendo violenza su me stesso, potrei dichiarare di accettarlo, ma sarei in malafede». La sua buonafede è un lascito spirituale importante per noi e salvifico per lui. Questo speriamo.

di Michele Giulio Masciarelli