Il 30 luglio di cent’anni fa la conversione di Chesterton. Il mio nome è Lazzaro e sono vivo

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«Il marchio della fede non è la tradizione: è la conversione. È il miracolo in virtù del quale gli uomini scoprono la verità nonostante la tradizione, e spesso troncando tutte le radici dell’umanità». Parole scritte da G.K.Chesterton, che forse oggi potrebbero sorprendere qualche lettore superficiale dello scrittore inglese, ma che dicono molto del genio di un autore tra i più acuti, divertenti e al tempo stesso controversi del Novecento.

L’intuizione sull’essenza della fede cattolica, colta nella conversione, è raccolta nel saggio The Catholic Church and Conversion, del 1926, quattro anni dopo quel 30 luglio 1922, un secolo fa, quando a Beaconsfield si compì la «cronaca di una conversione annunciata». Annunciata fin dall’inizio del secolo quando con i due saggi Eretici (1905) e soprattutto Ortodossia (1908) lo scrittore inglese aveva fatto capire che il suo percorso non era un vagabondare senza meta ma una scoperta di quella strada, ad un tempo nuova e antica («Il cattolicesimo è l’unica religione antica che sembra in grado di rimanere nuova») che lo avrebbe condotto circa venti anni dopo nel luogo, la Chiesa cattolica, «dove tutte le verità si danno appuntamento».

Questo “luogo” deve dunque essere davvero uno strano posto, una piazza o una casa eccentrica («Il centro della Chiesa non è la Chiesa», come ha osservato Papa Francesco che conosce lo spirito chestertoniano, e a volte lo cita alla lettera), comunque un luogo singolare, nel senso è uno ma al tempo stesso è “plurale”: «La Chiesa è una casa con cento porte, e nessun uomo vi entra mai con la stessa identica angolazione di un altro».

Qual è l’angolazione da cui è entrato Gilbert Keith Chesterton quel 30 luglio di cento anni fa? L’affermazione da cui siamo partiti può essere d’aiuto: c’è un miracolo per cui gli uomini, spesso gradualmente, però ad un certo punto scoprono la verità. Ogni uomo ha sete di verità, di conoscenza, una sete inestinguibile, che diventa curiosità, inquietudine, anche dramma, nel senso etimologico di azione, movimento. L’uomo asseconda questa sete e parte per la scoperta. Per Gilbert questo voleva dire allargare il suo sguardo e il suo pensiero; scrive sempre nel saggio del 1926 «Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo». E aggiunge, con parole che oggi suonano profetiche: «Non abbiamo bisogno di una religione che sia nel giusto quando anche noi siamo nel giusto. Quello che ci occorre è una religione che sia nel giusto quando noi abbiamo torto. Attualmente i problema non è se la religione ci consenta di essere liberi, bensì se la libertà ci consenta di essere religiosi». Anima inquieta e geniale, lo scrittore inglese vuole scoprire sempre più cose e si getta ingordo nel mare della verità, conscio che questo è il segno di essere uomini, uomini vivi, cioè assetati. L’alternativa è quando arriva “qualcosa” che spegne la sete in partenza e inaridisce la fonte: una forza negativa che potrebbe essere la pigrizia intellettuale, il cedere alla tentazione degli schemi mentali, venerando il proprio intelletto, le proprie idee, insomma l’ideologia. E quando Chesterton parla di scoprire la verità «nonostante la tradizione» sta dicendo che a volte questa nobile parola diventa il paludamento della propria pigrizia. Si potrebbe dire anche “accidia”, un vizio che Chesterton conobbe bene e nel quale cadde avviluppandosi in quella che oggi chiameremmo “depressione” che lo portò fin sulla soglia del suicidio. Lo ha colto bene un grande suo ammiratore, il poeta argentino Borges, quando descrive il suo percorso dal buio alla luce, grazie alla scoperta della poesia e della letteratura: «Chesterton visse nel corso degli anni intrisi di malinconia a cui si riferisce con la definizione fin de siecle. Da questo ineliminabile tedio venne salvato da Whitman e da Stevenson. Eppure qualcosa gli rimase attaccato addosso, rintracciabile nel suo gusto per l’orrido. Il più celebre dei suoi romanzi L’uomo che fu Giovedì, ha come sottotitolo Un incubo. Avrebbe potuto essere Poe o magari un Kafka; lui comunque preferì — e gli siamo grati della scelta — essere Chesterton (…) coraggiosamente optò per la felicità o finse di averla trovata. Dalla fede anglicana passò a quella cattolica, che, secondo lui, è basata sul buon senso. Arguì che la stranezza di tale fede si attaglia alla stranezza dell’universo, come la strana forma di una chiave si adatta perfettamente alla strana forma di una serratura. In Inghilterra il cattolicesimo di Chesterton ne ha pregiudicato la fama, poiché la gente persiste nel ridurlo a un mero propagandista cattolico. Innegabilmente lo fu, ma fu anche un uomo di genio, un gran prosatore e un grande poeta (…). La letteratura è una delle forme della felicità; forse nessun scrittore mi ha dato tante ore felici come Chesterton».

L’angolazione, la “crepa” da cui il romanziere entra nella Chiesa è quella dell’inquietudine, che assume il paradossale volto di una gioia che scorre più profondamente della noia e scaturisce dalla gratitudine per la scoperta e la sorpresa davanti a quel miracolo che è la vita.

Pochi giorni dopo la sua morte, avvenuta il 14 giugno 1936, così lo ricordava Mircea Eliade: «La letteratura inglese ha perso il più importante saggista contemporaneo, e il mondo cristiano uno dei suoi più preziosi apologeti. L’Inghilterra è più triste e smarrita dopo la scomparsa di G.K. Chesterton. Le eresie moderne potranno diffondersi liberamente. Non ci sarà più la penna pungente di G. K. C. ad aspettarle. Non troveranno più l’avversario inarrivabile nella controversia, la sua sana intelligenza e il suo disarmante ottimismo. The Laughingh philosopher è stato chiamato. Il filosofo che ride. Ride perché è sfuggito al marchio della stupidità pretenziosa, perché ha smascherato l’immane stoltezza e l’insincerità che si celano dietro le eresie e le filosofie popolari. Ma ride al tempo stesso perché la vita è un romanzo sentimentale, perché il miracolo si compie senza sosta attorno a noi, perché la salvezza è certa… Innocenzo Smith ci fa vedere benissimo che abbiamo perduto il senso del meraviglioso proprio perché lo cerchiamo, invece di vedere che è in mezzo a noi. Cerchiamo il miracoloso ed il romantico, come cerchiamo la felicità, l’amore perfetto e la saggezza, senza accorgerci che sono intorno a noi, in attesa che li vediamo».

In quegli stessi giorni anche il Papa, Pio XI , lo ricordò nominandolo defensor fidei e un po’ tutti i successivi romani pontefici si intrattennero con le sapide pagine del “filosofo che ride”. Nella seconda pagina de «L’Osservatore Romano» del 24 settembre 1922, nel celebrare la conversione al cattolicesimo avvenuta il 30 luglio di quell’anno, compare un articolo firmato da Enrico Furst con il titolo grande e semplicissimo di Chesterton che indica quanto questo autore, oggi un po’ sbiadito nella memoria dei lettori, fosse all’epoca un vero monumento, un intellettuale imponente (e ingombrante) di cui tutti più o meno erano costretti a occuparsi. Il trauma che visse l’Inghilterra fu notevole e anche per lo scrittore non fu un passo semplice da compiere, al punto che l’autore dell’articolo sul nostro quotidiano si sente quasi in dovere di chiuderlo con queste parole: «Però anche da questo lato egli ha motivo d’esser lieto se, perduta una nazione, in compenso ha guadagnato un mondo». Il giorno stesso in cui avvenne la conversione si celebrò il rito del battesimo e il corpulento scrittore inchinò il capo per ricevere l’acqua del sacramento, dopo di che compose e pronunciò questi versi pieni di grata letizia: «Dopo un momento che, / piegato il capo, / crollato il mondo, poi ritornò dritto, / uscii fuori (…) I saggi hanno cento mappe / che disegnano universi fitti come alberi, / scuotono la ragione con mille setacci / che accantonano la sabbia / e lasciano filtrare l’oro;/ per me tutto ciò vale meno della polvere / perché il mio nome è Lazzaro e sono vivo».

di ANDREA MONDA

Al Meeting

Una primizia impreziosisce il Meeting per l’amicizia fra i popoli 2022, che inaugura il suo programma di spettacoli sabato 20 agosto al teatro Galli di Rimini: si tratta della prima messa in scena italiana de La sorpresa , una fra le opere meno conosciute di Gilbert Keith Chesterton (scritta nel 1931 e pubblicata postuma nel 1952) dalla quale trae ispirazione la rappresentazione di Liberi tutti! , una produzione originale a firma di Otello Cenci e Giampiero Pizzol. «Mentre cercavo di comporre un programma legato al tema del Meeting, ovvero la passione per l’uomo,  — spiega Otello Cenci, direttore artistico della sezione spettacoli del Meeting  — mi sono imbattuto nel testo di Chesterton. L’argomento era perfetto. Abbiamo usato i suoi due atti e ne abbiamo aggiunto un terzo».