Il cristianesimo liberato: Dio ai confini (di Luigi Maria Epicoco)

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Fare teologia può sembrare davvero uno sport estremo specie in un mondo come il nostro che ha marginalizzato la questione della fede e la questione di Dio in un angolo buio dell’interiorità dell’individuo. Sembra il frutto più maturo di quella rivoluzione illuminista che, lì dove non è riuscita a sovvertire un radicale sentire religioso diffuso nella società, ha comunque offerto una casella di esistenza nelle mere esperienze intimistiche della persona. «Puoi credere — sembra dirci la cultura odierna — ma è solo un problema tuo, e della tua psiche!» (sarebbe troppo sentire la parola pneuma/spirito). Il teologo Francesco Cosentino, con un approccio probabilmente meno polemico del mio, è andato esattamente al “confino” del pensiero contemporaneo per offrirci una riflessione teologica che invece di rimpiangere il passato, o colpevolizzare semplicemente il presente, offre una considerazione articolata per mostrarci che proprio “ai confini” la questione di Dio ritrova una sua vera possibilità.

Il titolo di questo lavoro è Dio ai confini. La rivelazione di Dio nel tempo dell’irrilevanza cristiana (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2022, pagine 272, euro 28). Cosentino sembra muoversi in direzione opposta all’apologetica. La sua riflessione teologica non è l’estremo tentativo di ricollocare al centro della storia l’evento cristiano ma il mostrare che la centralità del cristianesimo non coincide con la centralità mondana, e che fin dagli inizi Dio sembra aver scelto come punto focale della sua opera ciò che il mondo considera margine, periferia, confine estremo. Si avverte una profonda sintonia con l’insegnamento di Papa Francesco: il margine non come un muro, ma come un luogo poroso dove linguaggi, immagini, urgenze, prestano all’evento cristiano l’alfabeto giusto per poter essere ridetto, e così tornare a farsi carne nel presente. «Il contesto occidentale — scrive Cosentino — segnato dal secolarismo e dalle coordinate postmoderne, invoca infatti una nuova creatività del pensiero e della prassi credente. Si tratta anche di chiedersi se secolarizzazione, indifferenza religiosa e pluralismo non siano in realtà finalmente da leggere e da integrare all’interno della stessa tradizione cristiana e se, al contempo, non rappresentino in qualche modo una parola profetica sul cristianesimo, in quanto capaci di gettare una luce sulla fede stessa, permettendoci di vedere aspetti fino a oggi poco considerati» (pag. 246).

Seguendo il filo del discorso di Francesco Cosentino possiamo arrivare a dire in maniera estrema che la crisi che stiamo vivendo è una grande occasione, e che ciò che a noi sembra la fine in realtà è solo il tramonto di una modalità, ma non la fine dell’evento che Cristo è venuto a inaugurare. Se però la crisi è un’occasione, allora la grande domanda è se siamo nell’atteggiamento ecclesiale di lasciarci evangelizzare da essa, e se siamo in grado di assumere davvero la postura del discernimento. Proprio su questa considerazione si sente, nella sua riflessione, l’eco del cardinale Martini che egli cita direttamente: «Il tempo della crisi è un tempo dello Spirito, in cui i nostri occhi vedono una fine ma in quella fine si manifesta un nuovo inizio: infatti, sotto ogni crisi c’è sempre una giusta esigenza di aggiornamento» (pag. 245).

La teologia di Cosentino ha l’ardire e anche l’ardore di voler liberare il cristianesimo. «Prendete il largo!», comanda Gesù ai suoi discepoli all’inizio di quell’incontro che avrebbe cambiato loro la vita, e queste pagine sembrano essere fedeli a questo comando. Cosentino allarga la questione e trasforma il confine in un trampolino da cui il cristianesimo e la vita dei credenti può ritrovare un suo slancio: «Si tratta di avviare pensieri e pratiche di un cristianesimo disinteressato a se stesso e al mantenimento delle sue istituzioni di potere, che promuove incontri, esercita la tenerezza e incoraggia la vita». La sensazione è che queste pagine non rimarranno lettera morta ma animeranno i cantieri di quel cambiamento che non dovrà essere un mero rimpiazzo del passato ma la testimonianza che il Vangelo è cosa viva e proprio per questo preserva se stesso spingendo la Chiesa a cambiare continuamente per non smentirlo con nessuna prassi. La Tradizione infatti è cosa viva, diversamente sarebbe ideologia, come ogni tradizionalismo e ogni progressismo.