Il tempo dell’assenza di Cristo (di Severino Dianich)

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A Maria, sua madre, da quel che narrano i Vangeli, Gesù risorto non avrebbe detto nulla. Mi piace pensare sia accaduto perché Maria, sua madre, aveva già capito tutto. All’altra Maria, invece, quella di Magdala, ha detto, perentoriamente: «Non mi trattenere!». Egli non intendeva restare perennemente qui, come non accade ad alcun uomo vivente su questa terra: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». Questo era il destino del Risorto. Egli dirà ai discepoli: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo», ma essi dovevano anche capire che non lo avrebbero più visto in mezzo a loro, non avrebbero più potuto toccarlo né ascoltare la sua voce.

L’ultima sera che erano stati con lui, per la cena di Pasqua, egli aveva ripetuto più volte che per lui era il momento di andarsene. Ed essi neppure gli avevano chiesto dove stesse andando, perché temevano di sentirsi dire: «Ora io vado da colui che mi ha mandato». Dovevano capire, però, che anche nella sua assenza avrebbero trovato una grazia: «Io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi» (Gv 16, 5-7).

La nostra spiritualità è molto legata al senso della sua presenza, che percepiamo ogni volta che ci riuniamo nel suo nome, quando si celebrano i sacramenti e soprattutto nell’Eucaristia. Ogni domenica a Messa ci sentiamo suoi commensali, ascoltiamo la sua Parola e, come i discepoli quella sera, ci nutriamo di quel pane spezzato per amore, che è il suo corpo, e diventiamo membra gli uni degli altri sotto di lui nostro capo.

Questi sentimenti ci accompagnano, quindi, lungo i giorni e nei momenti della sofferenza ci sostengono. Ora, una situazione, del tutto imprevedibile, ci sta privando di questa percezione fisica della sua presenza nell’incontro di fede con i fratelli. Scopriamo, allora, che ci sono momenti della vita, e sono questi, nei quali bisogna ritornare a meditare il mistero della sua assenza, quella che egli volle che la Maddalena piangente accettasse con fede: «Non mi trattenere!». Ciò che rimane è un’altra sua presenza, e le nostre comunità in questi giorni, ovviamente, non se ne stanno affatto dimenticando, immancabile e particolarmente imperativa nei momenti difficili, quella nei poveri: «I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me».

Della grazia nascosta nell’assenza di Cristo san Paolo aveva un’idea precisa: «Se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così» (2Cor5,16). Il testo greco suggerisce anche un’altra versione: all’espressione “alla maniera umana” corrisponde infatti un katà sárka, “secondo la carne”, cioè una qualche forma di percezione fisica della sua presenza. Allora, l’apostolo vuol dire che ora, invece, conosciamo Cristo katà Pneũma, cioè in un’esperienza diversa, tutta interiore al nostro spirito e più reale e profonda, animata dallo Spirito Santo, così come Gesù aveva predetto per il tempo della sua assenza: «Se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi». È lo Spirito, infatti, che dona la fede ed è per la fede che Cristo abita nei nostri cuori. Oggi ci sentiamo in particolar modo chiamati ad accogliere la provocazione di Paolo: «Esaminate voi stessi, se siete nella fede. […] Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi?» (2Cor 13,5).

«Tutto è grazia»: erano le ultime parole sussurrate prima di morire, dopo una vita tormentata nell’anima e oppressa dalla malattia nel corpo, dal giovane prete del romanzo di Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna. Tutto è grazia, anche la sofferenza di non poterci riunire per l’Eucaristia: la grazia di ritrovare nella nuda fede il primo principio della nostra salvezza e della nostra comunione nella Chiesa. Si dice, giustamente, che senza Eucaristia non c’è Chiesa. Eppure, non sempre questo è vero: i cristiani dell’Amazzonia che non la possono celebrare se non molto raramente, o i credenti che in Cina sono in prigione o agli arresti domiciliari, o i catecumeni che, in questa Pasqua non hanno potuto celebrare il tanto desiderato Battesimo, forse che non sono Chiesa? Prima ancora che i sacramenti, è la fede che crea il credente e forma la Chiesa. Il sacramento celebrato senza la fede non giova a nulla.

Essere chiamati a ricordarcelo è grazia anche per un ripensamento della nostra più abituale prassi pastorale. Tutto sembra concentrarsi sui sacramenti, per cui quando non possiamo celebrarli ci si sente nel vuoto. Troppo, in questi nostri paesi di antica tradizione cristiana, siamo abituati a considerare la fede un presupposto quasi ovvio e troppo poco ci si è dedicati a proporla agli atei, alle persone di altra religione, ai tanti battezzati che l’hanno abbandonata, ai molti, anche praticanti, dalla fede incerta e vacillante. Più che esortare: «Vieni a Messa!», a molti dovremmo chiedere: «Chi è Gesù per te? Tu credi?».

Se ci sentiamo smarriti per il venir meno dell’incontro domenicale per la celebrazione eucaristica, su cui a volte capita di misurare, superficialmente, il successo o l’insuccesso della missione della Chiesa, dovremmo domandarci se, per caso, non abbiamo dimenticato che il primo e fondamentale dovere di ogni cristiano è comunicare “la gioia del Vangelo” a coloro che nulla sanno di Gesù come a coloro che sapevano, ma hanno dimenticato. Che la grazia del momento presente sia anche quella di prendere sul serio l’esortazione di papa Francesco alla Chiesa di attivarsi «per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione» (Eg 27)?