La tenda dell’Esodo

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«Quando le condizioni sono mutevoli, una tenda può essere preferibile ad un grande edificio» (R. W. Scott). Facciamo fatica ad intravedere la tenda nel grande edificio delle istituzioni di vita consacrata: sia per l’immagine di apparente instabilità sia perché la tenda si colloca in un orizzonte di spazio alternativo al panorama metropolitano. La metafora della tenda va compresa nell’ottica del peregrinare d’Israele nel deserto: «Gli Israeliti partirono dunque da Ramses e si accamparono a Succot. Partirono da Succot e si accamparono a Etam che è sull’estremità del deserto. Partirono da Etam e piegarono verso Pi-Achirot…» (Nm 33, 5-7a). L’autore utilizza qui due verbi tipici di una cultura nomade: piantare e smontare la tenda; più esattamente si richiama il gesto di chi configge e estrae i paletti che fissano la tenda. Un gesto antico che fa di ogni luogo un possesso immediato e allo stesso tempo effimero. La stanzialità itinerante della tenda è l’immagine di una cultura che ricomincia sempre di nuovo e non sa mai cosa l’attende. Eppure per gli Israeliti non è mai un vagare a vuoto: «Mosè scrisse i loro punti di partenza, tappa per tappa, per ordine del Signore» (Nm 33, 2a). La storia della vita consacrata riscopre costantemente nuovi inizi, disegna luoghi inesplorati, scorre le mappe dell’approssimarsi del regno di Dio perché sia vicino alle donne e agli uomini di ogni tempo. Storia attraversata da una costante mobilità che ha frenato — o almeno contenuto — gli effetti più pesanti dell’immobilismo.

Le istituzioni di vita consacrata conoscono oggi una apparente stabilità che sembra diventare l’ordinaria situazione. I motivi sono noti e sono molto più complessi dei fattori a cui si fa abitualmente riferimento: calo vocazionale, tassi di perseveranza instabili, invecchiamento, progressiva contrazione di opere o servizi, difficile gestione dei processi di internazionalizzazione. Ci si ritrova nello spazio di una tenda credendo ancora di abitare un edificio. Forse è giunto il tempo di interrogarsi se sia ancora lungimirante affidarsi a sicurezze e certezze da edificio. Si tratta, forse, di occupare la tenda come spazio di passaggio e sostenibile. Spazio che custodisce la nostra «intimità itinerante» (Evangelii gaudium, 23) con Dio in comunione con la Chiesa. In quest’ottica si può leggere la metafora dell’edificio come esigenza della stabilità a tutti i costi, mentre la tenda si apre a uno spazio di significatività ecclesiale: «È slancio evangelizzatore che lascia un segno in questo mondo» (Gaudete et exsultate, 129). Lasciare un segno e rimanere significativi implica assumere, senza miopie, precarietà ed emergenza come luoghi della lettura dei segni dei tempi e non condizioni avverse dalle quali difendersi.

Oggi possiamo correre ancora il rischio di adottare soluzioni da edificio, mentre le circostanze storiche e soprattutto la propria identità carismatica e la stessa consistenza numerica, esigerebbero l’individuazione di orientamenti ecclesiali-carismatici, normativi e organizzativi interpretati secondo la nostra «capacità di integrarci armonicamente nella vita del Popolo santo di Dio per il bene di tutti» (Evangelii gaudium, 130) e non in ossequio a soluzioni adattate o accomodate al nostro edificio di cui oggi si avverte maggiormente il peso e gli oneri. Il nuovo spazio è la «vita del Popolo santo di Dio»: l’integrazione non è strategica all’istituzione (alla sua sopravvivenza), la vita del Popolo apre spazi di ecclesialità alla testimonianza dei consacrati e delle consacrate. Infatti «le buone strutture servono quando c’è una vita che le anima, le sostiene e le giudica. Senza vita nuova e autentico spirito evangelico, senza “fedeltà della Chiesa alla propria vocazione”, qualsiasi nuova struttura si corrompe in poco tempo» (Evangelii gaudium, 26).

Non si tratta di tessere l’elogio della in-stabilità intesa come destabilizzazione: ragionando in termini di edificio, prima o poi, ci si accorge di quanto angusto diventa il suo spazio e soprattutto quanto costa abitarlo in termini di potenzialità spirituali, istituzionali e, non ultimo, economiche. I paletti della tenda, piantati in modo corretto (domanda di ecclesialità) e al posto giusto (la vita del Popolo santo di Dio), potranno garantirci spazi di significativa ecclesialità che avremo l’accortezza di attraversare secondo le tappe che la Provvidenza ci consentirà di compiere. La tenda ci dà la possibilità di sentire nostro — senza possederlo — lo spazio che abitiamo e quando giunge il tempo di levare i paletti siamo consapevoli che abbiamo lasciato spazio alla Vita. Si tratta di trovare nuove collocazioni, perché l’itinerante stabilità della tenda ci mette in guardia dalla tentazione che la prossima tappa sia l’ultima.

di Pier Luigi Nava
Religioso della Compagnia di Maria (Monfortani), sottosegretario