L’abito fa il monaco? Il clergyman e il linguaggio del corpo di Luca Crapanzano

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C’è un elemento di dissolvenza necessaria nelle realtà evocate da Gesù per cercare di spiegare ai suoi discepoli l’essenza della loro identità?

Qualche domenica fa ci siamo ritrovati come comunità di Seminario in un incontro cittadino con la presenza del clero, dei giovani e di qualche adulto. L’incontro era stato pensato per far conoscere i seminaristi e per renderci conto – nella concretezza della presenza e della relazione personale – di ciò che le persone e i giovani si aspettano da parte dei futuri preti.

Abbiamo assistito ad una diatriba – iniziata da un anziano settantenne – abbastanza singolare e per certi versi simpatica: ci diceva che tra le cose più importanti che il giovane prete dovrebbe avere, deve esserci necessariamente l’abito, il colletto! E tutto questo affinché il prete sia identificabile e riconoscibile rispetto alla massa dei laici.

Ci chiediamo: è davvero importante l’uniforme in nigris o grigia o secondo le mode contemporanee anche gialla o verde o con palline à pois, ma con il colletto ben in vista? È l’abito che rende identificabile il prete secolare che tra l’altro, proprio in virtù del suo status di secolare ossia di non appartenente a nessun ordine religioso dovrebbe vivere il saeculum, ossia il secolo, la generazione contemporanea, la propria epoca e il proprio tempo? E inoltre ci chiediamo, perché per la sensibilità di alcuni è ancora così necessaria l’identificazione esteriore?

È evidente che la questione colletto è rivelativa di una discussione ben più ampia e che riguarda il ruolo e l’identità stessa del presbitero in mezzo al popolo.

Giovanni Paolo II nel 1982, rispondendo ad una questione “di abito ecclesiastico” posta dai presbiteri della diocesi di Roma, rispose ricordando il valore ed il significato di tale segno distintivo, “non solo perché esso contribuisce al decoro del sacerdote nel suo comportamento esterno o nell’esercizio del suo ministero, ma soprattutto perché evidenzia in seno alla Comunità ecclesiastica la pubblica testimonianza che ogni sacerdote è tenuto a dare della propria identità e speciale appartenenza a Dio”. Anche il Codice di Diritto Canonico al can. 284 parla di “abito ecclesiastico” pur inserendo i chierici (ossia gli ordinati) all’interno dell’unico capitolo intitolato De Popolu Dei (Il popolo di Dio).

Ci sia consentito in questa breve riflessione ricentrare la problematica a partire dal ruolo e dall’identità del prete diocesano senza entrare nel merito degli orientamenti tutt’ora vigenti, anche se per lo più non rispettati nella prassi. L’abito ecclesiastico dovrebbe ricordare al prete e ai fedeli la sua identità, ma è davvero così fragile questa identità tanto da essere necessaria una uniforme per ricordarlo a sé stessi prima e agli altri poi?

Nei Vangeli quando si parla dei discepoli di Cristo nel mondo si fa riferimento a elementi essenziali ma non identificabili nella loro pura essenza: luce e sale (Mt 5,13-16). Queste le realtà con cui Gesù identifica i suoi discepoli, elementi che per esercitare la loro funzione devono dissolversi, scomparire. Il sale da solo infatti non si può mangiare, né tantomeno il lievito, così come non si può fissare la luce. C’è dunque un elemento di dissolvenza necessaria nelle realtà evocate da Gesù per cercare di spiegare ai suoi discepoli – e quindi anche a noi – l’essenza della loro identità: dare gusto e vita nuova alla massa, far lievitare la vita e infine scomparire.

Non quindi eserciti di forze speciali identificabili per l’uniforme, ma testimoni talmente innamorati del Vangelo che fanno di Cristo il caso serio della loro vita sino al punto da averne preso la forma (Gal 4,19) imitandolo nel dono di sé. L’uni-forme è dunque necessaria ma riguarda la sequela, il discepolato e le scelte che facciamo nel segreto della nostra coscienza; è quella la dimensione che gli altri notano anche al mare o in costume.

Eppure, soprattutto in Francia e per certi versi anche in Italia, sta tornando il nostalgico desiderio di abiti e riti austeri e sacri che abbiano il fascino dell’eterno e di una certa identificazione con lui, mettendo in secondo piano “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono” che dovrebbero essere le stesse “gioie e speranze, tristezze e angosce dei discepoli di Cristo” – almeno stando al proemio della Gaudium et Spes.

Purtroppo la storia e i dati contemporanei confermano che l’identificazione con il sacro porta solo ad esercitare abusi di ogni genere. La questione allora non è “colletto sì- colletto no”, in molti casi è necessario per decoro e per necessità così come in molte altre è ridicolo, ma il modo con cui da preti ci concepiamo nel mondo vivendo anima e corpo la conformazione al Signore Gesù. Non è questione di moda- ultimamente è stata riesumata anche l’accusa di modernismo – né di protezione dal peccato, ma realtà ancora più profonda che è quella dell’identità del presbitero diocesano secolare che sta nel mondo.

Tornando alla riunione di qualche domenica fa, un giovane ventenne del gruppo giovanile, rispondendo alle continue provocazioni dell’anziano signore che vedeva nella dissolvenza del colletto la dissolvenza della Chiesa (e forse anche della sua stessa fede), disse: “a noi giovani interessa solo che i preti ci capiscano e ci stiano accanto, aiutandoci a crescere. Poco ci interessa del loro vestito!”.

Papa Francesco parla di preti che facciano odore di pecore, che abbiano il ritmo del cammino del popolo santo di Dio e che amino il Signore come fratelli nella verità della propria umanità. E questo dovrebbe bastarci come segno di riconoscimento.