«Le anime attingono felicità dalla sua pienezza» (Messaggio natalizio del vescovo di Piazza Armerina mons. Rosario Gisana)

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La frase di Agostino, tratta dal libro settimo delle Confessioni, è un’evocazione di Gv 1,16: «Dalla
sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia». L’autore giovanneo, cercando di spiegare
la singolarità dell’incarnazione del Verbo, utilizza un termine, cháris (grazia), di non facile
interpretazione. L’accezione, che ricorre soltanto nel prologo, sottintende la ragione per cui Dio ha
voluto abitare in mezzo a noi. La vicenda di Gesù di Nazareth infatti chiarisce l’intenzione
redentiva di Dio, secondo cui l’umanità sarebbe destinata alla «grazia».

Cosa s’intende per «grazia», considerando che tale virtù entra nel mondo per mezzo di Cristo (cfr. Gv 1,17)? Agostino intuisce che l’incarnazione, oltre ad essere un evento straordinario e irrepetibile, ha comportato per l’umanità, segnata dal peccato, un’opportunità significativa per ridare senso alla vita, per
raggiungere quelle mete di felicità che, senza Cristo, sarebbero rimaste pura utopia. E così è ancora,
purtroppo, per chi non coglie la novità di Gesù di Nazareth nella sua dimensione messianica. La
nascita di Gesù, secondo Agostino, s’iscrive nel bisogno di felicità che ognuno di noi sente destare,
ogniqualvolta qualche surrogato stimola la nostalgia di pienezza. Le forme surrogatizie, che
sostituiscono la grazia, o per meglio dire la felicità (beatitudo) sono ambigue e non aiutano a
leggere con realismo il senso della vita.

Perché l’uomo potesse giungere a questa pienezza, sottintesa dall’autore giovanneo con la
formula, «vita eterna» (cfr. Gv 3,15), Dio propone al mondo l’incarnazione del figlio. Essa sarebbe
il momento capitale, mai accaduto nella storia, in cui l’uomo non soltanto è liberato dal peccato, ma
è posto altresì nella condizione di poter sperimentare quanto aveva smarrito: la felicità primigenia
nella sua pienezza. Ciò è sottinteso chiaramente dall’espressione «grazia su grazia», ove la
preposizione greca antí (in cambio di) sembra accentuare qualitativamente il senso dell’accezione.
La grazia sarebbe la pienezza di felicità, non ravvisabile nel soddisfacimento dei bisogni, bensì
nell’accoglimento di una relazione. Agostino lo riferisce esplicitamente non soltanto spiegando che
la grazia è quello stato di felicità che l’uomo ricerca ansimante fin dalla nascita, ma facendo
soprattutto intuire che tale condizione è legata ad una persona, a colui che è dono di pienezza.

L’idea agostiniana di felicità, in relazione al Verbo incarnato, è particolare e si allinea
accanto alle grandi risoluzioni sul perché Dio si è fatto uomo (cur Deus homo). L’amorevolezza è
certamente la ragione principale che ha mosso Dio a rendersi vicino all’uomo, assumendo la
condizione umana. Egli è misericordia e bontà, e non poteva lasciare l’uomo nella solitudine
dell’amore. Rivelare la sua natura significa aver dato all’uomo, oltre la giusta prospettiva per le sue
quotidiane relazioni, la certezza che egli è parte di lui, come l’uomo è parte di Dio. Tale condizione
fonda un’altra grande motivazione: liberare l’uomo dal peccato originale. L’incarnazione del Verbo
è un atto della misericordia di Dio che si coniuga con il ripristino dell’umanità nuova (cfr. 2Cor
5,17).

Agostino, ragionando sulle motivazioni che hanno causato l’incarnazione del Verbo, coglie
un aspetto non pienamente ravvisato: il risveglio dell’uomo al senso di bellezza, insito nell’umanità,
nella sua umanità. Quello che infatti genera felicità nell’uomo, commisto a stupore, è la visione
della sua umanità, visitata dal Verbo. Cosa ha compiuto il Verbo in Gesù di Nazareth? Oltre a
rivelare la bellezza della natura divina, ha ridato all’umanità le peculiarità della sua bellezza
perduta: quella creaturale, amata intensamente dal suo fattore, corredata da virtù che superano di
gran lunga la natura angelica (cfr. Eb 1,5-14). Ciò si coglie con perspicuità nelle relazioni che Gesù
di Nazareth ha intessuto con le persone incontrate, mostrando cosa sarebbe stata l’umanità senza il
peccato originale. Accoglienza, rispetto, amabilità, senso dell’altro, riconciliazione, pace, giustizia,
mitezza, umiltà: virtù esorbitanti che appartengono alla nostra natura umana, la quale, se risvegliata
al senso di questa bellezza, comunica felicità. Non potrebbe essere altrimenti: la felicità nasce dalla
consapevolezza di quello che siamo e, in nome della nostra identità primigenia, di quello che
gratuitamente riusciamo a dare.

Quest’ultimo aspetto è atteso fortemente dal mondo. Esso desidera congiungersi a Dio, e il compito è affidato a coloro che hanno conosciuto il Verbo, coloro cioè che hanno accolto le dinamiche dell’incarnazione, che sono fondamentalmente messianiche. Tra le più esaltati, quella che rivela, in modo esemplare, la bellezza dell’umanità, è la riscoperta della fratellanza. Lo ribadisce con forza Papa Francesco nella Lettera enciclica, Fratelli tutti al n. 137: «L’aiuto reciproco tra Paesi in definitiva va a beneficio di tutti. Un Paese che progredisce sulla base del proprio originale substrato culturale è un tesoro per tutta l’umanità. Abbiamo bisogno di far crescere la consapevolezza che oggi o ci salviamo tutti o nessuno si salva».

È quello che ha rivelato il Verbo con l’incarnazione. La sua attenzione, solidale e benevola,
nei confronti dei poveri, ammalati, peccatori, costituisce uno sprone per riappropriarci della felicità:
di uno stile di felicità. Esso nasce dalla pienezza di umanità, inaugurata dall’incarnazione, e
persevera, laddove questa pienezza è comunicata, in relazioni scevre da giudizio, sospetto, invidia:
elementi di dissolutezza che soffocano sul nascere i germi di felicità che il Verbo ha disseminato a
piene mani con Gesù di Nazareth.

Allorché ci si ostina a perpetuare questo modo di incontrare l’altro, diffidente e circospetto, la felicità resta appannaggio dell’illusione, non cogliendo la bellezza di quella natura che Dio ha disposto accanto a quella divina. Persino gli errori dell’umanità, come il virus che, in questo tempo di pandemia, sta avvilendo i nostri comportamenti, sono paradossalmente un aiuto che stimolano a desiderare la felicità perduta, quella felicità generata «dalla sua pienezza». Riprendere la relazione con Gesù di Nazareth, ricordando, come ogni anno, l’incarnazione del Verbo, significa – direbbe ancora Papa Francesco in Fratelli tutti al n. 92 – che «al primo posto c’è l’amore […], il pericolo più grande è non amare».