Don Roberto Ponti, colpito dal covid-19, ha raccontato la sua malattia e la guarigione attraverso i social media

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Roberto Ponti, 54 anni, sacerdote paolino originario di Lodi. Il suo servizio pastorale lo ha portato anche a Kinshasa (Congo) dal 2011 al 2020. Da sempre appassionato dalla sfida di coniugare la vita di fede e la pastorale con gli schermi digitali, don Roberto ha saputo curare con attenzione i rapporti umani, in presenza o tramite mediazioni elettroniche, costruendo attorno a sé una vasta rete di relazioni che lo hanno sorretto anche nella malattia. Le sue posizioni sui media digitali lo hanno portato a essere spesso punto di riferimento per giovani comunicatori e professionisti del settore. Il percorso che lo ha condotto dal ricovero in ospedale alla guarigione è divenuto popolare nei media per il modo con cui ha saputo raccontarlo e per lo sguardo di fede con cui ha riletto la sua esperienza.

Don Roberto, perché dare notizia della tua malattia su Facebook?

«Perché, in genere, condivido buona parte della mia esperienza di vita sui social. È stato qualcosa di naturale, ho pubblicato la notizia per ricevere un po’ di appoggio. Non mi aspettavo una reazione così va- sta, sia a livello di numeri che di latitudine. Davvero in molti si sono interessati a me, da ogni parte del mondo, anche con molto affetto. Le uniche comunicazioni che non ho gradito sono state le curiosità troppo specifiche sulla mia situazione clinica».

Le persone come hanno reagito?

«Gran parte di quelli che mi sono stati vicini lo ha fatto in silenzio e con la preghiera. Molti me lo stanno rivelando adesso. Un mio confratello che opera in Nigeria, ad esempio, mi ha riferito soltanto ora che ha seguito tutta la mia vicenda a distanza. Ha appreso la notizia dai social media e mi ha accompagnato con la preghiera e con quella forma di vicinanza fraterna che transita attraverso la fede».

Perché pubblicare sui social media una foto con il casco respiratorio Cpap?

«È stato un modo semplice e immediato per con- dividere ciò che stavo vivendo. Probabilmente non ero abbastanza cosciente della serietà della mia situazione o dell’impatto che avrebbe potuto avere quell’immagine. L’ho ritenuta, invece, una possibilità di far riflettere sul Covid-19, sulla sua gravità e sugli effetti che può provocare, come monito a non prendere questa situazione con leggerezza. Comprendo bene le ragioni di chi, invece, non desidera esporsi nella malattia; io l’ho fatto per lanciare un messaggio»-

«L’esperienza di fede non è mai isolata e ho sentito il bisogno di condividerla anche con le mediazioni tecnologiche. Il fatto che molti pregassero per me ha dato più forza alla mia preghiera, ed è andata crescen- do grazie alla presenza del cappellano dell’ospedale nella mia stanza e tramite il contatto digitale con tutti coloro che si stavano interessando a me e comunicavano attraverso WhatsApp e Facebook».

Nella Fratelli tutti papa Francesco indica nella fraternità e nell’amicizia sociale vie per costruire un  mondo migliore. Possono transitare anche attraverso gli schermi digitali?

«Papa Francesco nell’enciclica si dimostra un po’ critico sulle mediazioni digitali. L’aggancio autentico, in questi casi, è l’esperienza personale che hai condiviso con chi, poi, rimane in contatto tramite i social me- dia. Una conoscenza iniziata sugli schermi digitali, invece, si trasforma in un’amicizia significativa quando c’è una base di verità che viene condivisa, è questa dimensione che fa la differenza. L’autenticità delle rela- zioni può transitare anche attraverso la comunicazione digitale, che ha tutti i suoi limiti e ne siamo ben con- sapevoli, ma anche ricchezze non trascurabili».

Quanto la guarigione profonda, quindi guarigione spirituale dell’anima, può essere favorita dalle mediazioni digitali?

«Penso che tutto possa contribuire alla guarigione. Non possiamo generalizzare, non esistono esperienze riproducibili per tutti ma, talvolta, una serie di fattori, tra i quali anche la comunicazione digitale, supportano i cammini di guarigione. Ci sono situazioni che possono offuscare il bene che proviene dalla comunicazione elettronica, ma diventarne consapevoli ci consente di mettere in circolo questo bene e fare passi in avanti».

Il messaggio che ti ha più colpito?

«Probabilmente quello geograficamente più lontano, da parte di un mio confratello di Sydney, che mi ha confidato: “stiamo pregando per te”. Mi ha fatto comprendere quanto una comunicazione semplice che, però, arriva da un punto geografico agli antipodi, aiuti a sentirsi in comunione».

Che consiglio potremmo dare agli operatori pastorali che stanno vivendo il limite nelle relazioni?

«Alla base di una buona comunicazione ci dovrebbe essere sempre una comunità di persone che si in- contrano. Non possiamo pensare di costruire relazioni senza gli aspetti fisici di vicinanza. Ed è fondamenta- le coltivare sia la dimensione affettiva che quella di conoscenza autentica dell’altro. Certo, ci sono elementi della relazione che, in questo momento storico, sono rarefatti, ma ci sono modalità che permettono di tener- li attivi. Ad esempio, ho riscoperto la bellezza e l’importanza della telefonata. Ci siamo molto concentrati sullo scritto: messaggi, posta elettronica, social media, ma la voce ha un calore insostituibile. Ho rivalutato la comunicazione telefonica come mediazione che restituisce maggior vicinanza e consente di concentrarsi sulla singola persona con cui si sta comunicando, rendendola importante per noi. Questa modalità di interagire è dispendiosa, ma rivela la dimensione personale del nostro interesse pastorale».