L’EUROPA SOCIO-POLITICA OGGI (relazione di Davide Sassoli tenuta in un Capitolo Generale delle FSP)

Articoli home page

 

Alcune di voi saranno state a Bruxelles e avranno visto com’è posizionato il Parlamento europeo. Prima di Natale ho scoperto una cosa che mi ha colpito e che rimarrà come uno dei primi segni della mia attività politica e parlamentare. Vicino al Parlamento, c’è un quartiere al di là di un parco che si chiama Etterbeek. Sono entrato in una bottega di italiani e ho riscontrato la presenza di molti ebrei, di quelli tradizionalisti, con i riccioli alle tempie, come si vedono alla Borsa… Ho chiesto al commerciante se ci fosse nei paraggi una sinagoga o una zona frequentata dalla comunità ebraica. Mi è stato risposto che da alcuni anni in quell’angolo di Bruxelles arrivano ebrei da Anversa, anzi scappano da Anversa, perché in quella città così importante per la tradizione europea, per la storia e l’economia, dove la presenza ebraica risale al ’500, specializzata nel commercio, nel taglio dei diamanti, ecc., c’è una politica xenofoba da parte di chi ha preso in mano il governo della città e si vivono violenze, incendi e minacce. Molti ebrei, molte famiglie hanno deciso di trasferirsi. Capirete quanto può colpire una cronaca di questo genere.

Nel cuore dell’Europa, in paesi formati dalla cultura europea, questi fenomeni mettono in discussione identità, mentalità, tradizioni, valori (di libertà, fraternità, uguaglianza…) che sembravano acquisiti da tempo. E i rischi che stiamo correndo possono degenerare, soprattutto in questo tempo di recessione economica.

Pensate alle ultime elezioni europee, le prime con 27 paesi. Si sono svolte nel mezzo di una formidabile crisi economica, come non succedeva da almeno settant’anni, che mette a nudo i vizi della politica, dell’economia, di un certo modo di amministrare i modelli economici. La recessione è un fenomeno strano che determina chiusura: le comunità, gli stati tendono a chiudersi. Ma come ci si chiude, vengono a galla i problemi, perché la chiusura implica la sensazione di essere esposti a pericoli, e il senso di paura si diffonde, influisce su comportamenti individuali e collettivi.

Le elezioni europee del giugno scorso si sono svolte in questo scenario. Ed è venuto fuori un Parlamento con una inedita rappresentanza di gruppi xenofobi ed euroscettici. Tra leghisti, xenofobi di varia natura, euroscettici… parliamo di almeno 100 persone in un parlamento di 750 parlamentari…

Ma che cosa sta accadendo in Europa? Prima di rispondere, presento un biglietto da visita dello spazio europeo.

Nel 2000 la popolazione europea era di 375 milioni di abitanti[2], che nel 2050 si ridurrà a 265 milioni (questo tipo di previsioni è considerato attendibile, come lo sono naturalmente tutte le previsioni).

Un altro dato interessante: la popolazione lavorativa tra i 15 e i 65 anni di questo grande mercato europeo consta di 252 milioni di persone, che nel 2050 diminuiranno a 210 milioni: 16% in meno in 50 anni. Diminuirà il tasso di natalità, il numero dei lavoratori. Aumenterà il numero dei 65enni, per tanti fattori: da 61 milioni a 102, quindi il numero quasi raddoppierà. Crescerà naturalmente il numero degli 80enni. Nel 2000 erano 13 milioni, nel 2050 nello spazio dei 27 paesi passeranno a 30 milioni.

Aumenterà l’aspettativa di vita: le donne a 85 anni e gli uomini a 80 anni. Un dato allarmante riguarda la dipendenza delle persone con oltre 65 anni, che smettono di lavorare e quindi dipendono da quelle che lavorano: questa parte di popolazione crescerà dal 24% al 49% nel 2050.

Sono dati da tener presenti, se vogliamo ragionare su che cosa sta accadendo e sui problemi che ci troveremo ad affrontare. Questi dati semplici hanno ripercussioni sui problemi del lavoro, sull’assistenza, sulla qualità della vita, sui regimi pensionistici, sui bilanci statali, sui bilanci comunitari….

Un altro elemento di chiusura delle comunità locali e delle comunità nazionali è dato dal ritmo che stanno assumendo i processi di globalizzazione. Abbiamo messo a regime un Parlamento con caratteristiche inedite, nel contesto di una crisi economica che non ha soltanto effetti sulla produzione, sulla finanza, ma incide sull’aspetto sociale, politico, istituzionale, sugli stili di vita e sulla formazione delle mentalità, di come noi guardiamo quello che accade.

Se a questo scenario noi aggiungiamo i ritmi che hanno assunto i processi di globalizzazione in questi quindici anni, capiamo come esso presenti elementi di forte preoccupazione.

Perché? Abbiamo sempre studiato che quando l’economia si apre, nascono nuovi stimoli: l’innovazione è una costante della letteratura economica. Le economie che si aprono sono più forti perché c’è più innovazione, più produttività, più posti di lavoro. Se siamo più forti, generiamo più benessere. Questo era un dato della storia economica nell’Europa dagli anni ’50 fino a quindici anni fa. Noi produciamo meglio, produciamo di più se apriamo a nuovi mercati e siamo più forti.

Ma in questi ultimi anni è diventato evidente il processo inverso. Un numero sempre più grande di cittadini europei sta percependo la globalizzazione, la liberalizzazione, la spinta verso una maggior competitività, e la sta vivendo come una minaccia. Si stanno invertendo i connotati che ci facevano dire: più innoviamo, più produciamo per i nuovi mercati, più siamo forti. Questa minaccia deriva, ad esempio, dal fatto che la globalizzazione può far sparire mestieri tradizionali, può dividere aree geografiche dove è chiaro chi è il vincente e chi è il perdente; la globalizzazione può mettere in evidenza la necessità di modelli economici alternativi, modelli più sostenibili sotto il profilo ambientale, pone problemi nuovi di relazione con culture, mondi, esperienze diverse, e quindi impone di gestire in modi tanto diversi dal passato fenomeni nuovi, come quello dell’immigrazione. Le categorie tradizionali, cioè, cominciano a traballare.

Dicevamo, e avevamo sempre saputo, che un’economia che produce di più in un mercato che sa aprirsi, è più forte. Oggi tutto questo viene messo in discussione dalla percezione di un pericolo diffuso: non essere in grado di sostenere il ritmo dell’innovazione. Pensate alla nostra capacità di inserirci in modelli produttivi diversi a una certa età; pensiamo al fatto di essere concorrenti in casa nostra con persone che hanno un’elasticità, una capacità di adeguamento diverse dalla nostra.

Tutto questo viene messo in discussione anche da un sentimento diffuso, provocato dal fatto che tu capisci subito se vinci o se perdi, se la tua città, provincia, regione è vincente o perdente. È impressionante se noi guardiamo all’Italia. Siamo un paese con 60 milioni di abitanti, uno dei più grandi paesi europei; gli standard di competitività, su 20 regioni, riguardano 2 e mezzo. Solo queste sono in grado di sostenere i ritmi di un’economia globalizzata, in cui il 40% del prodotto interno lordo è frutto della globalizzazione. Via via che le comunità tradizionali si disgregano, cresce l’insicurezza, la paura.

Ma allo stesso tempo acquistano centralità altre questioni, come l’identità, la cittadinanza. Acquistano valore nuove caratteristiche, ad esempio quella di essere sempre di più cittadini-consumatori. Eravamo abituati a ragionare sul cittadino-politico, oggi abbiamo una nuova identità, quella del consumatore. È lì che si incanalano desideri, bisogni nuovi, ed emergono questioni nuove (rifiuti, salute, alimentazione…) che si pongono al centro di una scena in cui lo spazio politico ed economico deve misurarsi con strumenti nuovi.

Siamo arrivati qui tramite un mutamento sociale, un rapido percorso verso un’economia post-industriale, basata sulla conoscenza e sui servizi, che ha trasformato la natura del lavoro, le tradizionali divisioni tra le classi sociali; che ha cambiato anche l’accesso alle possibilità economiche. Il benessere di massa e la modernizzazione economica hanno consentito certamente standard di vita migliore. Nello spazio europeo è così. Questo non vuol dire che non esistano disuguaglianze, ma gli indicatori ci dicono da quale punto siamo partiti e dove siamo arrivati: a uno standard di vita migliore, appunto.

La recessione non produce soltanto effetti economici, ma ha un’incidenza fortissima sulla formazione dell’identità.

Non dobbiamo pensare che quello che sta accadendo in Europa sia solo frutto di questa crisi e degli strumenti per arginarla. È in atto una forte revisione dei valori condivisi, dei valori tradizionali. Non stiamo parlando di tramonto di valori ma di nascita di valori nuovi. Con il prof. Ugo Spirito, un filosofo italiano molto dimenticato, ma che bisognerebbe rileggere, potremmo dire – e lui lo diceva nel 1971-72 − che i valori che sorgono sono quelli di carattere universale, e i valori che tramontano sono quelli limitati a zone circoscritte, a dinamiche economiche e sociali.

Ciò sta avvenendo in un mondo sempre più piccolo, in una civiltà della comunicazione sostenuta da una complessa macchina informativa, in cui si sta verificando qualcosa a cui prestiamo poca attenzione. È il sapere scientifico a dare il passo ai valori universali e a operare una formidabile unificazione del mondo. Se portiamo questo alle estreme conseguenze, dovremmo dire che molti valori tradizionali sono destinati a dissolversi. Pensate all’idea di patria e a quanto questo ha riscontro nell’idea religiosa della vita.

I meccanismi economici tradizionali, ordinari e straordinari, stanno producendo uno scenario diverso, che vale per le dimensioni economiche dei fenomeni e le loro ripercussioni. La globalizzazione sta mettendo a fuoco una civiltà che si trova in un momento di passaggio. Forse non si può arrestare, ma si può governare.

I compiti della politica si devono misurare con nuove questioni.Come dare moralità al governo di un mondo in cui i procedimenti scientifici e tecnici rendono possibili trasformazioni sociali, nuove forme di vita che impongono sempre di più il rispetto di norme, alle quali non è possibile sottrarsi senza compromettere valori politici di riferimento? Avete notato quale rincorsa vi sia nella ricerca di denominazioni politiche di riferimento? Il farfugliamento della politica, il fatto di voler ritornare a denominazioni originali che poi originali non sono, dove il capitalismo diventa neo-capitalismo, il liberalismo neo-liberalismo, il socialismo neo-socialismo… Le nostre difficoltà risentono molto della crisi e anche delle fedi politiche di riferimento.

Tutto questo in Europa diventa una costante, e può assumere i connotati di una forte ingovernabilità dei processi sociali.

Ma che cosa ha influito così profondamente da modificare lo spazio europeo?

All’indomani del secondo conflitto mondiale, la società europea era in buona misura ancora pre-industriale. Nel 2006 gli stati più avanzati si trasformano tutti in società post-industriali. Nell’Europa dei 25, prima dei due nuovi ingressi, la produzione manifatturiera rappresenta meno di 1/5 dell’occupazione, il settore dei servizi invece fornisce più dei 2/3 dei posti di lavoro. Tra il 2000 e il 2004 sono stati creati oltre 8 milioni di nuovi posti di lavoro, nei settori di servizio. Diminuisce in questo periodo l’occupazione nel settore industriale con la perdita di 1700 posti di lavoro e 1100 si sono persi nel settore agricolo. La tendenza si afferma in modo chiaro, tanto nei primi come nei nuovi stati membri. In Polonia la crescita occupazionale maggiore è stata registrata nei comparti immobiliari e commerciali. Il passaggio all’economia post-industriale è basata sulla conoscenza e sui servizi.

Qual è il risultato? Le mutazioni riflettono in buona misura il modo in cui si sono evolute le tecnologie, la domanda di beni di consumo… La nostra società opulenta si è trasformata.

Sono membro della Commissione Affari Esteri e della Commissione Sviluppo. Sapete qual è una delle grandi questioni che riguardano l’Italia in questo momento? È quella di far capire a 18 paesi su 27 che l’industria è una cosa importante, che vale la pena di proteggerla. E questo non è condiviso nell’incontro politico tra famiglie e idee. Nel 2005 (e sono passati solo 5 anni), i settori basati sulla conoscenza davano impiego a oltre il 40% della forza lavoro nei 25 paesi dell’Unione europea. Mi trovo nella necessità di dover spiegare perché bisogna difendere l’industria; di spiegare come in un paese come il nostro, con tutte le debolezze e le fragilità, l’industria in questo anno e mezzo è stato uno strumento che ci ha consentito di attutire la recessione economica. Ed è un settore nel quale è difficile intervenire, se non con forti ristrutturazioni, provocando innovazioni e mettendo sul mercato persone che saranno difficilmente ricollocabili. Se io chiudo l’industria, se non credo più in essa, non si creano condizioni di mobilità.

Nel nostro paese resiste un pezzo di industria pregiata che ha mercato e ha possibilità di stare nel mondo globale. Per esempio, nella produzione dell’acciaio, l’Italia era tra i primi paesi al mondo; poi sono arrivati i cinesi che producono una quantità enorme di acciaio comune, non pregiato. C’è spazio per la produzione di acciaio di qualità? Sì, è la sfida di quel segmento di industria italiana; difendere quel segmento piccolo, medio, grande è dare valore al fatto di essere in grado non solo di stare dentro ai progetti globali con gli strumenti dei nuovi settori, ma anche con il prestigio che si è formato nel tempo.

Questa è una grande questione, che dividerà l’Europa sempre di più. E la dividerà in quattro parti: Nord e Sud, Est e Ovest. Se questo vale per le grandi scelte che ci troveremo a fare nei prossimi anni, vale anche per le dinamiche che questo imporrà nei processi politici.

Secondo molti studiosi il capitale nel mondo moderno è di nuovo mobile, come lo è stato nell’ondata di globalizzazione antecedente alla prima guerra mondiale. Solo che alla mobilità del capitale si sono aggiunte le crescenti possibilità offerte dalla comunicazione globale, dal trasferimento di tecnologie, di informatica soprattutto, in virtù delle quali i dirigenti hanno ripensato l’organizzazione dei canali di approvvigionamento interni globali. Che cosa hanno prodotto? Esternalizzazione. Non si tratta solo di delocalizzare, di portare fuori attività poco qualificate. Gli sviluppi della globalizzazione e quelli dell’informatica stanno producendo la disgregazione dei compiti e l’esternalizzazione di mansioni anche altamente qualificate che possono essere svolte a costi inferiori e in modi più efficienti in altre parti del mondo.

Un documento importante dell’ultima presidenza finlandese della UE, ha messo alcuni paletti sul comportamento delle aziende europee che subiscono il fascino di non porsi troppi problemi su che cosa significhi portare fuori il lavoro. Certamente è una grande opportunità, ma si possono correre anche molti rischi. Può consentire di alimentare fenomeni pericolosi o devianti e nello stesso tempo può incoraggiare politiche di nuova qualità della vita e sostenere processi di democrazia, di giustizia. Per esempio, l’Europa va in Africa, ma ha il dovere di chiedersi con chi sta parlando, chi va ad aiutare, con chi va a lavorare… Perché l’Africa è tante cose. Noi ci comportiamo così, ma la Cina non si comporta così. Va in Africa e non si pone le domande che noi vogliamo che tutti gli operatori si pongano: con chi stai parlando, che cosa stai incoraggiando… Addirittura, per gli economisti cinesi, l’Africa è un pezzo del mercato interno cinese. Questo crea enormi problemi. Qui ritroviamo una moralità da difendere; in questi processi è difficile trovare moralità, ma c’è qualcosa che dobbiamo difendere.

Alla mobilità del capitale e ai processi di globalizzazione si accompagna una recente liberalizzazione del mercato, che spinge molte aziende europee a concentrarsi su come raggiungere alti profitti. Se questo è vero, le indicazioni che ci dava nel 2006 la presidenza finlandese devono essere ancora più rafforzate. Dobbiamo sapere dove andiamo, con chi parliamo, e con chi lavoriamo. La delocalizzazione è uno strumento, può essere un’opportunità, non un valore assoluto.

Questa situazione non è determinata da assenza di alternative, perché il mondo globalizzato deve avere un’etica. Qual è l’etica che tiene insieme il tutto?

A questo proposito vorrei stralciare alcune riflessioni da un libro molto utile e molto importante, scritto nel 2009 in onore del card. Achille Silvestrini. Si tratta di una serie di scritti di politica, di teologia.

Credo che non si possa dire meglio di come fa l’arcivescovo Carlo Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali. «L’Europa è di fronte a scelte fondamentali, che varranno per molto tempo», e confronta i dati di invecchiamento, qualità, vita, lavoro, occupazione, giovani, natalità, anziani… Questi dati si impongono in questo momento, per far sì che le scelte politiche, economiche siano improntate a valori fondamentali. Questo è il tempo per fare le scelte giuste. Le scelte di oggi varranno per quel segmento di tempo che abbiamo iniziato… 30, 40, 50 anni…

Perché ci troviamo in questa situazione? Se abbiamo capito, possiamo correggere. È molto complicato ma abbiamo capito che abbiamo di fronte opportunità e difficoltà. Parafrasando Parmenide: dobbiamo scegliere, siamo al bivio e oltre il bivio c’è la porta che ci conduce al sentiero del giorno o della notte, che non sono la stessa cosa; allora dobbiamo sapere quali sono le chance e quali sono le sconfitte. Dobbiamo avere chiaro che cosa vogliamo, per imboccare l’una o l’altra strada. Questi processi in corso offrono idee, segnali.

Tra le conseguenze positive della globalizzazione bisogna pensare alla crescita sostenuta dalla ricchezza globale. Possediamo oggi più ricchezza e tecnologia di quanta l’umanità ne abbia mai posseduto nel passato. L’allargamento del mercato, le nuove tecnologie, la crescita degli investimenti, l’espansione degli strumenti della comunicazione (tra i quali internet, pochi anni fa con oltre 140 milioni di utenti, oggi con 1 miliardo e più di utenti) sono tutti fattori che hanno favorito la crescita della ricchezza, il progresso umano nel campo della cultura e del godimento fondamentale dei diritti umani, e hanno fortemente aumentato le opportunità delle persone nel campo dell’occupazione, perché ci sono nuove forme e modalità di lavoro. Queste sono conseguenze positive della globalizzazione.

Poi ci sono conseguenze negative. Mons. Celli prende a prestito un rapporto di qualche anno fa, prodotto dal programma dell’Onu per lo sviluppo.

Nel corso degli anni ’90 gli individui che vivono nei paesi a reddito più elevato hanno ottenuto:

– l’86% del prodotto interno lordo mondiale; il 5° più povero, solo l’1%;

– l’82% dei mercati mondiali delle esportazioni, il 5° più povero solo l’1%;

– il 68% degli investimenti diretti esteri, il 5° più povero solo l’1 %

– il 74% delle linee telefoniche mondiali, che costituiscono gli attuali mezzi di comunicazione di base, il 5° più povero solo 1,3%.

Possiamo dire che la globalizzazione produce effetti molto positivi, ma produce anche effetti negativi, fortissime disuguaglianze.

Nell’ultimo decennio c’è stata una crescente concentrazione di redditi, risorse e ricchezze tra gli individui, imprese, paesi. I 200 individui più ricchi del mondo hanno raddoppiato il loro patrimonio netto nei quattro anni precedenti, fino ad arrivare a più di 1000 miliardi di dollari. Le ricchezze dei 3 miliardari primi in classifica sono maggiori della somma del prodotto interno lordo dei 48 paesi meno sviluppati, dei loro 600 milioni di abitanti. La recente ondata di fusioni e acquisizioni, sta concentrando il potere industriale nelle mani di una media impresa, che rischia di erodere la concorrenza. Negli ultimi 10 anni le prime 10 compagnie di telecomunicazioni hanno controllato l’86% di un mercato di 262 miliardi di dollari.

La marginalizzazione, l’esclusione della possibilità di partecipare al processo di integrazione che riguarda dunque gran parte dell’umanità, ci fa dire − prendendo i lati positivi e i lati negativi − che la questione sociale non è più italiana, francese, ma non è nemmeno più europea. La questione sociale è questione globale. Se ci mettessimo a fare delle tabelline, dovremmo aggiungere che, se è vero che dobbiamo sempre considerare i processi al punto di partenza in cui cominciano le fasi, è vero anche che gli stessi paesi in via di sviluppo non sono più gli stessi di quando queste fasi sono iniziate. Perché anche i paesi in via di sviluppo, con tutte le grandi questioni, oggi non sono più quelli di dieci, venti, trent’anni fa. Ad esempio, sulla speranza di vita, che ha subito un forte aumento, o riguardo all’analfabetismo, che in molti dei 48 paesi presi in esame ha dati addirittura dimezzati.

«La globalizzazione − ci ricorda Celli − ha costi umani assai pesanti, ma non bisogna credere che si tratti di costi unicamente economici. Per il fatto che la globalizzazione crea situazioni di povertà, semplicemente impedisce di uscire dal girone infernale dove i paesi si trovano».

Alcuni argomentano che la globalizzazione impone costi assai gravi, soprattutto nel campo culturale, producendo una sorta di omogeneizzazione della cultura, imponendo a tutti la cultura occidentale, marginalizzando le culture locali, nazionali, riducendole a culture periferiche e minacciate di sparizione. In realtà l’incontro tra culture è un fatto positivo, perché ogni cultura ha le sue ricchezze e può scambiarle; ma un’egemonia culturale forte da marginalizzare le altre culture, magari di alto valore, è un pericolo che abbiamo di fronte, che suscita nelle culture minacciate e compresse un senso di rivalsa e affermazione della propria identità e dei propri valori, da cui possono scaturire egoismi, nazionalismi politici e religiosi, fondamentalismi, e alimentare nuovi conflitti.

Abbiamo uno spazio europeo che sta presentandosi con connotati omogenei derivati da processi che si sono conclusi o ancora in corso. In questo spazio europeo che si è formato come spazio economico, l’identità non è stata la nostra scommessa. Abbiamo formato questo spazio economico, e adesso ci accorgiamo che non è solo dai processi economici che possono derivare delle identità che ci tengano insieme. Potremmo dire anzi che, senza mettere a fuoco questo aspetto, noi siamo a rischio, perché tutto quello che abbiamo detto e i numeri che abbiamo riferito, partendo dall’Est fino ad arrivare all’Africa, ci dicono una cosa sola: che questi processi economici possono imporre effetti imprevisti, che i processi economici possono determinare l’identità.

E allora bisogna andare a quello che abbiamo detto, alla sfida vera che abbiamo visto: richiamare a una centralità della politica, del rispetto, dell’etica. In questo l’Europa deve investire, se non vuole essere travolta, se non vuole subire ma imporsi con coraggio, ed essere non solo un fatto economico, non solo il più grande mercato del mondo in termini di valori economici.

Sono stato introdotto ricordando uno straordinario personaggio, Giorgio la Pira. Per motivi familiari ho avuto modo di conoscerlo e di accompagnarlo nell’ultima passeggiata romana, poco prima di morire. Gli domandai:

− Professore, lei parla sempre dell’escatologia del profondo, cosa vuol dire?

Mi rispose una cosa molto bella: − La nostra vita è come il mare…

− E sotto il mare che cosa accade?

− Sotto, nel mare, ci sono correnti misteriose molto profonde; noi dobbiamo capire quelle correnti, cercare di intuirle, prima che arrivino a galla.

 

Questa la responsabilità che abbiamo. Un pezzo della nostra vita si gioca nella responsabilità verso il tempo. Il tempo è un valore molto cristiano, come disse Giovanni Paolo II…

[1] David Sassoli è nato a Firenze il 30 maggio del 1956, giornalista. Nel 1999 è entrato nella redazione del TG1, come inviato speciale, si è occupato di grandi avvenimenti interni e internazionali. Nel 2007 è diventato vice direttore del TG1 e responsabile dei programmi di approfondimento Tv7 e Speciale Tg1.

Il 7 giugno del 2009 è stato eletto europarlamentare del Partito democratico con oltre 400 mila preferenze. Al Parlamento Europeo ricopre l’incarico di capo delegazione del Pd e sono membro della Commissione DEVE (Sviluppo) e AFET (Affari Esteri).

È sposato e ha due figli adolescenti: Livia e Giulio. Suo padre era amico di un grande italiano, Giorgio La Pira − sindaco di Firenze, terziario domenicano, oggi servo di Dio − che considerava la politica una vocazione.

[2] I dati citati e le previsioni sono del Parlamento e della Commissione Europea.