Nel ventre della Parola. Con Giona la sapienza s’impara all’ombra effimera del Qiqajon (di Luigino Bruni)

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La presenza delle piante nella Bibbia è ambivalente. Nell’arca di Noè entrano solo uomini, donne e animali. Le piante restano fuori, come se il regno vegetale non fosse vita come quello animale. Le piante, poi, non sono rimaste fuori soltanto dall’arca di salvezza, le abbiamo lasciate fuori anche dal nostro modello di sviluppo, non le abbiamo inserite nelle nostre analisi costi-benefici. L’eclisse delle piante è diventata anche eclisse della terra che è uscita dallo sguardo della nostra economia e dalla politica. Si è progressivamente allontanata sulla linea dell’orizzonte finché un giorno non l’abbiamo più vista, e il giorno dopo abbiamo iniziato a distruggerla.

Al tempo stesso, nella Bibbia alcuni alberi e piante sono autentici protagonisti di episodi decisivi. Cosa sarebbe la Genesi senza l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male? Come parlare di Geremia senza il mandorlo e di Elia senza la ginestra? Quanto misera sarebbe la nostra speranza senza il fico sterile al quale Gesù da duemila anni continua a donare ancora un anno in attesa che porti finalmente frutto? E come potremmo capire Giona senza il qiqajon?

«Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino [qiqajon] al di sopra di Giona, per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò una grande gioia per quel ricino» (Giona 4,6). Giona, il profeta, è fuggito da Ninive, adirato con Dio per aver cambiato idea e perdonato gli abitanti. Lo ritroviamo seduto sotto una piccola capanna, alla sua ombra (4,5). Ma, nonostante fosse già all’ombra, Dio fa crescere una pianta misteriosa, un qiqajon, per fare altra ombra su Giona, che prova una gioia molto grande. Qiqajon è un hapax, un vocabolo presente una unica volta nella Bibbia, una parola di non semplice comprensione anche se tradotta in genere con “ricino” (ma anche con zucca o edera).

Partiamo da una domanda ovvia: perché Dio fa crescere una pianta per fare ombra a Giona che si trovava già all’ombra? L’autore non ce lo dice, come non ci dice perché Giona provi una gioia «molto grande» per quella pianta e per quella seconda ombra. Potremmo benissimo liquidare, come fanno molti interpreti, questo ennesimo dettaglio bizzarro del libro consegnandolo ancora al genere letterario umoristico; oppure, anche qui, possiamo tentare un’altra lettura, sempre rischiosa in mancanza di dati testuali certi e robusti – e per questo anche entusiasmante.

La prima ombra Giona l’aveva ottenuta con l’opera delle proprie mani. La pianta di ricino gli arriva invece direttamente da Dio; la prima ombra era frutto del suo lavoro, la seconda è solo grazia. Per un profeta quelle due ombre sono quindi cose profondamente diverse: anche se l’esito finale è lo stesso (proteggere dal sole) è l’origine che è diversa, è il principio dell’ombra che cambia. Nella Bibbia, nell’origine c’è il senso di tutto, di ogni creazione, di ogni parola – «In principio Dio creò…» (Gn 1,1); «In principio era il logos» (Gv 1,1). A noi oggi interessano i fenomeni, i fatti, i risultati, qualche volta il processo: all’homo biblicus interessava il principio, perché ciò che appare non dice nulla se non capiamo il suo primo senso, che diventa anche l’ultimo. Solo la luce dell’inizio svela il senso di ciò che vive e accade.

Dobbiamo poi tenere molto presente che Giona sotto quella capanna si trovava in uno stato di depressione spirituale; era fuggito da Ninive e da Dio, e aveva chiesto di morire – «YHWH, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!» (4,3). Sotto quella prima ombra della capanna Giona stava facendo l’esperienza del fallimento, del rimorso, del pentimento per aver cambiato idea dopo la tempesta, essersi lasciato convincere da Dio di recarsi finalmente a Ninive dove aveva annunciato un oracolo che non si era avverato perché YHWH aveva cambiato idea. Quella prima ombra non alleviava il dolore vocazionale dell’anima: riparava il capo ma non riparava il cuore che restava danneggiato, terremotato, scoperto e bisognoso di un’altra copertura, quella delle vesti per Adamo ed Eva, o almeno quella del pietoso segno di Caino.

L’ombra della capanna è quella che possiamo trovare anche noi quando, dopo i grandi fallimenti vocazionali e identitari della nostra vita, fuggiamo ci nascondiamo cerchiamo un riparo. A volte lo costruiamo da soli, altre volte ci ospita un amico, un’amica, un genitore, una sorella; qualche altra volta restiamo nella stessa stanza di sempre, fuggiamo solo con l’anima e ci costruiamo un rifugio invisibile per gli altri (e magari anche a noi stessi). In quella casa, qualche volta la stessa casa dell’infanzia, ritroviamo un primo conforto, riusciamo a ripararci il capo dal sole, l’anima dalle paure, dai rimpianti, dalla rabbia e dai fantasmi del passato, dall’angoscia del futuro diventato minaccioso e spaventoso, esito triste di una vita vissuta nell’illusione. Passiamo le giornate in compagnia delle piccole cose e del cane, facciamo molte passeggiate, impariamo a curare un giardino e a fare le marmellate.

Ma sappiamo che quell’ombra somiglia ancora a quella di Giobbe (Gb 3,5; 17,7), non è l’ombra delle «ali di Dio» dei salmi (Sal 17,8;36,8;57,2; etc). Quel primo riparo ci può comunque aiutare, qualche volta è persino essenziale per non morire davvero dopo certe tempeste perfette. Si può restare a lungo sotto questa prima ombra, qualcuno ci resta fino alla fine, e può essere una buona fine. Ma può anche accadere che, in un altro giorno, arrivi un’altra “ombra”, un riparo diverso. Come accadde a Giona: quella pianta divenne il tocco dell’angelo che fece rialzare Elia. Da qui la sua «grande gioia», che è la prima emozione positiva che incontriamo nel libro di Giona. È una gioia speciale, che forse con questa intensità conoscono davvero soltanto i profeti.

Con la seconda ombra del qiqajon Giona entra in un’altra dimensione, risente il gusto della sua vocazione e quindi della vita – nei profeti vocazione e vita sono la stessa cosa. Aveva già fatto l’esperienza dei linguaggi non verbali di Dio – la tempesta e il grande pesce -, ed era stato capace di interpretarli come “parola”, perché i profeti hanno lo speciale dono di leggere i segni dei tempi come anche segni di Dio. Con lo spuntare di quell’albero Giona rifà la stessa esperienza fatta nel ventre del grande pesce, quando aveva sentito che quel grembo buono era contenuto nel seno materno di Dio. E forse sotto l’albero gli sarà sorta di nuovo nell’anima una preghiera, un’altra lode, un nuovo ringraziamento: «Il Signore è il mio custode, il Signore è la mia ombra e sta alla mia destra» (Sal 121,5). La custodia del grande pesce e quella del qiqajon sono esperienze diverse ma anche molto simili tra di loro, perché Giona interpreta anche l’arrivo di quella pianta come una seconda salvezza da una morte quasi certa.

Il testo ci dice, infatti, che Dio aveva fatto crescere quella pianta per “liberare” Giona “dal suo male”: e quale è ora il male di Giona se non la sua rabbia, l’indignazione e il rammarico? Il male del profeta non era certamente l’afa né il forte sole. Quella pianta era spuntata e cresciuta accanto alla sua capanna, ma diventa liberazione dal male di Giona perché lui interpreta quella crescita come liberazione, come amore-hesed. Non bastano i fatti, neanche i miracoli, per liberarci dal male spirituale: è essenziale che noi riusciamo a leggere quel fatto (una pianta, un angelo, un amico) come una parola che Dio ci sta mandando, e ci convinciamo che quel messaggio è vero, che non ci stiamo semplicemente auto-ingannando. E come non vedere in questa seconda ombra anche un’eco delle parole di Gabriele a Maria?: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra» (Lc 1,35). Per Giona quel ricino è un angelo che gli porta un’annunciazione: e anche lui crede a quella parola-segno.

Quella pianta donata non durerà per sempre, ha offerto a Giona soltanto un sollievo temporaneo, lo vedremo. Ma un sollievo e una gioia temporanei restano sollievo e gioia, la loro transitorietà non annulla l’esperienza buona che abbiamo fatto magari solo per un giorno, per una sola ora. L’effimero non è necessariamente illusione, anche una farfalla che vive soltanto un giorno vive davvero, partecipa veramente e da protagonista all’essere dell’universo.

L’umanesimo biblico è un umanesimo della vita, e per questo è anche un grande insegnamento etico sul valore della vita mentre si svolge. Un “mentre” che non è la ricerca del piacere nell’attimo fuggente. È molto di più. È quell’istinto vitale che ci dice che la vita che in questo momento accade dentro e attorno a me è l’unica possibilità che ho per intonarmi con l’infinito, con Dio, con te, con il mio cuore. Non non ne ho un’altra di migliore. La vita passata ricordata e la vita futura immaginata sono solo vanitas-hevel se non sono allacciate dentro un nodo di un presente vero e vivo proprio perché presente. È qui ed ora dove accade il miracolo della vita, dove si compie la possibilità di sfiorare e forse toccare l’eterno. Forse solo Qoelet (cap. 8) ha colto questa sapienza biblica in tutta la sua forza e drammatica bellezza.

Buona parte della saggezza umana consiste nel comprendere, un giorno, che la bellezza, la gioia, il dolore e l’amore di questo giorno che stiamo vivendo hanno un valore infinito, che è infinito non “nonostante” la loro provvisorietà ma “grazie” ad essa. È l’effimero di questo giorno breve e veloce che lo fa bellissimo, vero e prezioso proprio perché è vero e non tornerà più. Si può vivere una buona adultità e una bella vecchiaia se un giorno si capisce che ciò che davvero vale è l’ascolto di questo amico che mi parla in questo preciso istante, sparecchiare bene questa tavola dove il mio piatto è l’unico piatto ormai rimasto, e scoprire che in quel gesto con cui riassetto la cucina, un gesto solenne e sacro come quello di un sacerdote sull’altare, sto ricreando con Elohim il mondo intero, sto gustando ancora la vita esattamente come feci con la prima poppata di latte. In quel momento “tocco” i miei nonni che non ci sono più, i miei avi che non ho incontrato mai, il bambino che deve ancora nascere; rivive quella serata accanto al fuoco, quella canzone, quell’ultimo incrocio di sguardi. Se c’è una possibilità vera di eternità su questa terra deve essere qualcosa del genere. Si impara il mestiere del vivere sotto l’ombra provvisoria del qiqaion.
Dedicato ai miei amici della Comunità di Bose, che hanno voluto dare alla loro casa editrice il bel nome del Qiqajon.