Nelle capanne di Sukkot la bellezza abita la precarietà (di Massimo Giuliani)

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In libreria il trattato del Talmud sulla festa delle capanne, curato dal rabbino Riccardo Di Segni. Ricorrenza gioiosa, in cui si legge il Qohelet a ricordare la fragilità umana
Il nuovo trattato del Talmud, appena tradotto e pubblicato con testo ebraico a fronte, porta il titolo Sukkà che significa capanna. È dedicato all’omonima festa di pellegrinaggio a Gerusalemme, detta Sukkot, la terza dopo Pasqua e Pentecoste. Essa cade nel periodo autunnale che coincide con la vendemmia e le ultime attività agricole prima dell’inverno. Con il tempo le è stato sovrapposto un significato storico-esistenziale: il ricordo del lungo soggiorno dei figli e delle figlie di Israele nel deserto, nel loro uscire dall’Egitto e camminare verso la terra della promessa, allorché vissero in capanne. Un tempo di prove e privazione, e di inevitabili lamenti, certo, ma anche di grazia, visto che mai mancò loro la manna, anche quando trasgredirono, e soprattutto dato che nel deserto Mosè consegnò loro la Torà e rinnovò con loro l’alleanza divina.
Tale ricordo si concretizza nel precetto di costruirsi una capanna in cui mangiare e, come fanno alcuni, dormirvi. La festa dunque fa respirare un misto di precarietà, di cui la sukkà è simbolo, ma anche di gioia, che è addirittura un comando esplicito che accompagna questi giorni, allietati da rami di palma, mirto e salice, nonché da un bel frutto che la tradizione identifica con il cedro. Neanche a dirlo, queste quattro specie vegetali sono state a loro volta caricate di molta simbologia e la festa si conclude con una giornata detta Simchat Torà ovvero “la gioia della Torà”. Chi non ha visto la gioia di come si celebra la festa della Torà in una sinagoga ortodossa non sa cosa sia la gioia, religiosamente parlando. A differenza delle altre due feste summenzionate, Sukkot non ha un corrispettivo nel calendario liturgico cristiano (e il perché può avere molte risposte). Il trattato talmudico che se ne occupa non può che apparire tecnico, nei suoi aspetti pratici, a chi non conosca lo spirito del giudaismo, che ama i dettagli, li ragiona e ne discute a fondo: trattandosi poi di un’abitazione sì temporanea ma assai carica di valore esistenziale, come potrebbero essere trascurati i dettagli?
Nella sua dimensione di simbolo ogni sukkà è aperta ad ospitare sette figure illustrissime, detti in aramaico ushpizin (i tre patriarchi ossia Abramo, Isacco e Giacobbe, insieme a Giuseppe il vicerè d’Egitto, Mosè e Aronne e il re Davide), a significare che non si tratta soltanto di una costruzione nello spazio ma anche di un memento temporale, che marca la continuità teologico-politica dell’intera storia ebraica. Inoltre, dopo averla costruita con le proprie mani, e ogni anno da capo, si è soliti abbellire la sukkà e decorarla con frutta di stagione: precarietà non significa aspetto sgradevole, men che meno bruttezza. Al contrario, la bellezza è un tratto che non manca in questa festa, ad esempio nell’uso estetico, ossia senza consumo alimentare, dell’etrog, l’agrume di cui nel Talmud si descrivono le qualità essenziali ai fini del suo uso liturgico. Qualcuno può chiedere: perché non si mangia (come la melagrana a capodanno, ad esempio)?
La ragione sta forse nel fatto che il bello estetico, si pensi alla sfera dell’arte, non va consumato ma serve al bisogno di elevarsi spiritualmente; così anche il bello naturale tipico dell’etrog maturo, con il suo giallo sgargiante, va usato in tal caso per elevarsi e va apprezzato senza altro scopo. In reatà nella Torà non si parla di cedri o di limoni, ma i rabbini hanno identificato il perì ‘etz hadar di Levitico 23,40 (traducibile con “frutto dell’albero bello”) con l’etrog, scientificamente noto come cidrus medica, il cedro nostrano. Anche qui, i maestri di Israele ragionano alle pagine 35a-36b del testo talmudico, su come debba essere questo frutto per servire adeguatamente al culto: la sua forma, la grandezza, l’integrità, e se un prodotto d’innesto sia altrettanto adatto. Essendo un comando divino, chi non soppeserebbe i modi giusti per adempierlo? In queste discussioni eccelle un famoso rabbino che visse tra I e II secolo della nostra èra, rabbi ‘Aqivà, che si mostra sempre assai rigoroso e più esigente nelle sue opinioni rispetto ai suoi colleghi. Credo che ciò sia dovuto all’inclinazione mistica di questo grande maestro (che morì martire per mano dei romani, per essersi opposto al loro divieto di insegnare Torà), un’inclinazione tesa a cogliere ogni particolare della Parola divina, inclusi i valori estetici, che secoli dopo nella qabbalà verranno associati a tiferet, l’emanazione divina che veicola bellezza e splendore.
Forse rabbi ‘Aqivà cercava esattamente questa dimensione nella perfezione dell’etrog, un riflesso nel “frutto bello” della bellezza e dello splendore del Creatore. Ciò spiega e giustifica la meticolosità e la passione con cui molti chassidim del cuore cercano il cedro perfetto con cui pregare, senz’altro scopo che celebrare con gioia la gloria, altra possibile traduzione di tiferet, del loro Creatore. Come ricorda rav Riccardo Di Segni, curatore del volume (come gli altri del grande progetto di traduzione in italiano del Talmud babilonese, edito da Giuntina con molteplici apparati, pagine 594, euro 65,00), oltre alle parti halakhiche o normative per la corretta costruzione della capanna, il trattato racconta di come la festa veniva celebrata a Gerusalemme «quando funzionava il Santuario: mentre di notte vi era un’illuminazione straordinaria, di giorno una solenne processione accoglieva l’acqua che era attinta dalla fonte viva e serviva [oltre al vino, forse novello] per la libagione».
Il canto dei leviti si accompagnava al suono dei flauti e di altri strumenti musicali come lire, arpe, cembali e corni, mentre i sacerdoti “salivano e scendevano” (come gli angeli visti in sogno da Giacobbe) sui quindici gradini che nel Tempio portavano dal cortile degli israeliti al cortile delle donne, quindici come i salmi delle ascensioni. E via descrivendo. Ultima nota, a Sukkot viene letta liturgicamente la meghillà o rotolo di Qohelet, forse perché in questo scritto biblico, al versetto 11,2, si allude a tale festa; o forse solo perché tale lettura, con i suoi toni pessimisticonaturalistici, è in sintonia con il senso di precarietà di cui è intriso il precetto di risiedere nella sukkà, e a ben vedere l’intera nostra esistenza, dove fragilità e speranza, timore e gioia sono sempre inseparabili.