«Noi non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura»: Eb 13,14 (Gianfranco Ravasi)

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Era un famoso rabbino polacco dell’Ottocento di nome Hofez Chaim. Un uomo venne da lontano a consultarlo e rimase stupito perché la casa del rabbino conteneva solo libri, un tavolo e una seggiola. «Dove sono i tuoi mobili?», gli chiese. E il rabbino gli replicò: «E i tuoi dove sono?». «Ma io sono qui solo di passaggio». «Anch’io», concluse il rabbino.
Dopo aver ascoltato questo racconto che ha per protagonista un rabbino dei Chassidim, i “pii” ebrei mitteleuropei, è facile far risuonare le parole dell’autore di quella solenne omelia che è la Lettera agli Ebrei: «Noi non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (13,14). E ad esse si può accostare un brano di un’altra “lettera” cristiana, quella che un ignoto autore del II secolo indirizzava a un certo Diogneto: «I cristiani abitano ciascuno la loro patria ma come forestieri; partecipano a tutte le attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri, ma come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è terra straniera».
Ecco, dunque, un appello serio e pacato contro ogni nazionalismo esasperato, contro l’attaccamento al possesso di idee e di cose, contro ogni tentazione di autodifesa esclusivistica. Il respiro del cristianesimo è di sua natura universale, essendo legato all’amore per ogni creatura e non solo per la propria tribù o nazione. Il suo anelito va oltre la prigione del tempo e dello spazio perché è aperto all’eternità e all’infinito a cui è chiamato.
Il presente è, quindi, reale perché in esso viviamo, ma è transitorio. Le realtà materiali non devono essere ceppi che ci legano quaggiù, impedendoci il volo verso l’alto. Sì, perché anche se ovvia, ci dimentichiamo spesso di una semplice verità: «Se vedi un uomo arricchirsi, non temere: quando muore, non porta nulla con sé!» (Salmo 49,18).