Padre Ernesto Balducci: IL PROFETA VISSUTO SULLE FRONTIERE INQUIETE DELLA PACE (di Alberto Guasco)

Articoli home page
Tre le figure più originali del cattolicesimo italiano del secondo Novecento, il religioso scolopio fu un fine intellettuale e pastore appassionato. Formatosi alla scuola di La Pira e Roncalli e accanto a Turoldo, Vannucci e Dossetti, nel clima del Concilio fu animatore della rivista Testimonianze e pioniere del disarmo e dell’ecologia integrale
Il 25 aprile 1992, a seguito d’un grave incidente stradale avvenuto due giorni prima a Faenza, «scivola in Dio» Ernesto Balducci, padre scolopio nato il 4 agosto 1922 a Santa Fiora (Grosseto), figura tra le più originali del cattolicesimo italiano del secondo Novecento e uomo sempre capace di vivere – come egli stesso avrebbe scritto a Paolo VI nel 1971 – «alle frontiere dell’inquietudine».
Alla pari del quasi coetaneo e quasi conterraneo Lorenzo Milani, fin da fine anni Trenta, cioè dal tempo della formazione trascorso presso il Calasantianum, lo studentato filosofico-teologico dei padri Scolopi di Roma, Balducci “dà fastidio”. Lo dà ai superiori, che di fronte alla sua sete d’autonomia e d’una cultura più ampia rispetto a quella che sorbisce – all’ascetica preferisce la neoscolastica e più ancora l’umanesimo dei Maritain e dei Daniel-Rops, per non parlare delle sue inclinazioni poetico-letterarie – meditano a lungo sull’effettiva compatibilità tra il giovane e l’ordine. Ma forse il problema è posto male, se è vero che – prevede Balducci nel proprio diario – nella prossima società della «libertà democratica» non sarà lui a trovarsi male, ma gli altri, cioè i giovani Scolopi «col cervello inchiodato di definizioni e reticolato da schemi».
Sia come sia, ed è un primo passaggio di frontiera, il 23 aprile 1944 il neppur ventiduenne Balducci fa la professione generale e si sposta a Firenze, dove è ordinato prete nel 1945. È il capoluogo toscano, dove il suo itinerario s’incrocia con quello d’altri “preti dinamitardi” come David Maria Turoldo e Giovanni Vannucci, il luogo della sua prima fioritura, quello dove la sua identità e i suoi interessi si affinano con più precisione.
Balducci è certamente un giovane di frequentazioni letterarie, vicino agli ambienti degli ex scrittori della rivista Il Frontespizio, e artistiche, come testimonia nel 1949 l’invenzione della «Messa degli artisti», esperienza destinata a durare un decennio. Di più, è un padre che si spende sul piano pastorale, rivestendo il ruolo di guida spirituale e di assistente ecclesiastico di non pochi gruppi di Azione cattolica, universitari e giovanili, e più significativamente ancora quello di formatore d’un laicato cattolico enormemente bisognoso di cultura filosofica e teologica. Infine, è un religioso fortemente attratto dal problema politico-sociale. Il che, se da un lato significa fiancheggiare (non acriticamente) la Democrazia cristiana alle elezioni del 1948, dall’altro – nella Firenze degli anni Cinquanta – non può che voler dire legarsi in amicizia a Giorgio La Pira e partecipare ai cinque Convegni per la pace e la civiltà cristiana da lui promossi nel 1952-1956.
Ed è pure dall’aura del “sindaco santo” che, nel biennio 1952-1953, Balducci trae ispirazione per la fondazione del centro d’impegno Il Cenacolo, da cui gemma un più ristretto Gruppo di iniziativa sociale; il quale, a sua volta, nel 1958 dà vita alla rivista Testimonianze, affidata fino al 1961 alla direzione di Balducci medesimo. Sono iniziative che non vanno molto a genio a Ermenegildo Florit, vescovo coadiutore del vecchio Elia Dalla Costa, e soprattutto ai suoi amici del “partito romano”, Ottaviani in primis: dunque, quando la diocesi viene “normalizzata” allontanandone le figure meno irreggimentabili, nel 1959 Balducci si deve accomodare a Roma.
Tuttavia, chissà se per eterogenesi dei fini, il suo trasferimento nella capitale è quasi coincidente con l’avvio della primavera giovannea. E del tempo del Concilio Balducci vive l’annuncio come speranza («lo spezzarsi dell’anfora di Betania»), l’inaugurazione come compimento dell’attesa («erano anni che aspettavo il definitivo smascheramento dell’ateismo cattolico», scrive dopo le parole rivolte da Roncalli ai «profeti di sventura») e le conseguenze come qualcosa di destabilizzante («ho perduto per strada tutti i miei miti»). Peraltro, cresciuto alla scuola di La Pira e dell’enciclica Pacem in terris, e sempre più impegnato sui temi della pace e dell’obiezione di coscienza, nel 1963-1964 Balducci non si fa neppure mancare un processo e una condanna «per apologia di reato» per aver pubblicamente difeso Giuseppe Gozzini, primo cattolico obiettore di coscienza in Italia.
Terminata l’assise conciliare del 1962-1965, se la sua assunzione rappresenta un’altra frontiera che Balducci è chiamato ad attraversare, anche al suo post-Vaticano II non mancano le inquietudini. Anzi, per la verità, tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta tutto l’itinerario del padre scolopio è davvero particolare. Per un verso, specialmente all’inizio, può essere sovrapposto a quello delle Comunità di base e della contestazione cattolica, come dimostra il tentativo – non privo di rischi – di mediare insieme ad altri preti il grave dissenso apertosi tra l’ormai cardinale Florit e la Comunità dell’Isolotto di don Enzo Mazzi. Per l’altro verso, Balducci è invece uno di coloro che non pensano mai a una rottura della comunione ecclesiale: per dirla così, continua a pensare “con” la Chiesa e a restare “dentro” la Chiesa, talora “nonostante” la Chiesa.
D’altronde, di fronte allo «scompiglio» causato dalla morte del «mio piccolo mondo antico» e più ancora innanzi alla «fine del cristianesimo che noi conosciamo» – sono le espressioni con cui Balducci si affaccia agli anni Settanta – lo stesso termine Chiesa «ha perso molto di chiarezza» e ha bisogno di essere ripensato. Lo scolopio lo fa seguendo alcune direttrici di fondo. In primo luogo, specie grazie al confronto con Lercaro e Dossetti, si cala sempre più in una dimensione di Chiesa locale (dal 1966 risiede a Badia Fiesolana), di fatto assumendo una collocazione marginale. Ancora, recependo fino in fondo il dettato conciliare, in nome della laicità dello Stato e della non-ingerenza ecclesiastica nella vita pubblica, prende posizioni che mostrano come ritenga superato il principio dell’unità politica dei cattolici; peraltro, il principio si dimostra superato da sé in occasione del referendum sul divorzio del 1974 e delle spaccature emerse nel campo dei credenti.
In ogni caso, tutte queste scelte vivono alla luce di una «svolta antropologica» – come Balducci stesso l’avrebbe chiamata nel suo L’uomo planetario del 1985 – in base alla quale lo Scolopio sceglie di «piegarsi sugli uomini contemporanei fino a far proprie le speranze di un migliore avvenire terreno, fornendo loro il sostegno di una promessa divina». In altre parole, ed è una scelta che lo porta lontano da Paolo VI (che comunque l’avrebbe sempre protetto) e tanto più da Giovanni Paolo II, Balducci immerge la profezia cristiana, a cui resta fedele, nel confronto con culture “altre” e nella laicità più assoluta della storia: «Chi ancora si professa ateo, o marxista, o laico, e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi. Io non sono che un uomo».
È da questo approdo antropologico che Balducci si coinvolge nel processo di dissociazione degli ex terroristi dalla lotta armata e nel dibattito sulla riforma carceraria Gozzini, nel movimentato itinerario della galassia pacifista (nel 1986 fonda la casa editrice Cultura della pace) e negli esordi pubblici della riflessione ambientale emersa dal disastro di Chernobyl. Ed è da queste posizioni che Balducci attraversa l’ultima frontiera della sua inquietudine, il disfacimento del vecchio ordine mondiale – il padre scolopio è uno di coloro che credono al progetto riformista di Gorbacev e che non esultano per il dissolvimento dell’Unione Sovietica – e l’emergere d’un nuovo disordine planetario di cui ben coglie uno dei primi sintomi. A esserne messaggera, nel 1990-1991, è la guerra del Golfo, «uno dei punti nevralgici della civiltà del mercato», «la ghiandola pineale» d’un sistema internazionale che collassa nel momento in cui i missili della coalizione anti-Saddam, più che Baghdad, colpiscono al cuore il ruolo dell’Onu.
Oggi, a trent’anni da quegli eventi e dalla morte di Balducci, non poche delle sue intuizioni sembrano conservare la loro attualità. Attuale, per esplicita contraddizione con il presente, è la sua idea che il consorzio umano, nella sua organizzazione, non possa fare a meno del contributo della fede cristiana. Attuale è la convinzione che quest’ultima possa incarnarsi in qualunque contingenza storica e in tutte le civiltà, pur senza identificarsi con nessuna e tantomeno con quella occidentale. Anche perché quest’ultima – spiega Balducci negli ultimissimi scritti – è responsabile del genocidio che apre l’età moderna (quello degli indios), e di quello che la chiude (quello del Medio Oriente). Là dove, tra l’uno e l’altro estremo, in cinque secoli si consumano non-incontri e anzi scontri mortali tra culture, motivati dalla volontà di «esportare il battesimo», poi «la civiltà», poi «il socialismo», poi «la democrazia» e infine, nel caso dell’Afghanistan, l’uno e l’altra. «Non è forse vero che alla radice attuale della crisi della vecchia Europa», ci interroga ancora oggi Balducci, «c’è la percezione che il modello di civiltà creato e diffuso dall’Occidente non è compatibile con le ragioni profonde della vita?».