Quando il prete fallisce (don Carlo Cattaneo)

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Il 16 marzo la Diocesi ricorda un anniversario importante. Uno dei suoi figli più illustri, il beato Francesco Pianzola, riceveva l’ordinazione sacerdotale, dando inizio ad un’avventura umana e cristiana straordinaria.

Una missione portata, abbracciando la Croce, fin negli angoli più oscuri e dimenticati di un’umanità ferita nel cuore e povera nella vita. Scalda di zelo e al tempo stesso spaventa un po’ confrontarsi con la sua figura, con il suo essere ministro fedele alla vocazione ricevuta e capace di affrontare le prove senza cedere allo scoraggiamento. E attorno alla luce del Padre, riflesso di quella di Cristo, emergono i contorni e le ombre di vite sacerdotali che non hanno avuto lo stesso esito. Sono le storie che la cronaca con freddezza e cinismo sbatte in faccia ad ascoltatori e lettori, con quello “amore di verità” da urlare “a tutti i costi”, che riconosce la vittima, invoca giustizia ma non sa andare oltre per riparare il male oltre a debellarlo. Proprio di loro, di quei “preti caduti e feriti”, vittima di una fragilità troppo spesso solo stigmatizzata e condannata, credo sia importante parlare e soprattutto pregare.

Non lo neghiamo. Tutti abbiamo un’idea estremamente alta della missione e della figura del sacerdote. Anche i più “lontani” e “critici” immaginano (e a volte pretendono) un ministro di Dio perfetto o almeno privo di quell’impasto di fango e terra che è proprio dell’umanità. E così quanto scandalo quando questa fragilità, a volte con sopportabili manifestazioni altre volte con vere e proprie aberrazioni, emerge e sembra diventare carattere dominante!

Preti uomini, preti fragili, preti fallibili (e alle volte falliti!)… non siamo pronti ad ammettere una realtà così forte che è un pugno nello stomaco ad ogni nostra idealizzazione. Eppure dobbiamo farci i conti… volenti o nolenti. E dobbiamo farlo in quell’ottica di attenzione a quei “fratelli feriti” alla quale continuamente il Santo Padre ci richiama.
La parabola del “buon Samaritano” è lì ad insegnarci un modello di carità concreta che va al di là delle parole e sceglie strade impopolari capaci di portarci faccia a faccia con ciò che disgusta e fa ribrezzo, per poterlo abbracciare e farcene carico. Per qualcuno sarà indifferente, per altri fastidioso e urticante, per altri ancora semplicemente banale… non importa. In coscienza, davanti a chi è caduto, a chi fatica, a chi ha ferito e fatto del male, non posso non chiedermi: e se fossi io? O peggio ancora: e se fosse mio fratello? E non posso prender sonno, cullato dalla logica del “fratello maggiore” che non accetta l’incontro con chi porta sulle vesti l’odore della propria debolezza.