Riconciliarsi con la propria debolezza (Louf A.)

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Sfuggire alla debolezza significherebbe sfuggire alla potenza di Dio che è all’opera solo in essa.

Dobbiamo dunque imparare a dimorare nella nostra debolezza, ma armati di una fede profonda, accettare di essere esposti alla nostra debolezza e nello stesso tempo abbandonati alla misericordia di Dio. Solo nella nostra debolezza siamo vulnerabili all’amore di Dio e alla sua potenza. Dimorare nella tentazione e nella debolezza: ecco l’unica via per entrare in contatto con la grazia e per diventare un miracolo della misericordia di Dio.

La maggior parte di noi è inquieta, se non addirittura smarrita, quando ci appare, in modo più o meno brutale, la nostra debolezza. Alcuni arrivano perfino a fuggire: bisogna aver già una certa esperienza dell’amore di Dio per osare permanere nella debolezza e riconciliarsi con il proprio peccato. Alcuni non riusciranno mai a riconoscere la minima traccia di debolezza in se stessi, il che è molto grave. La vita di costoro può sembrare molto generosa, perché fanno degli autentici sforzi, ma nel contempo sarà sempre un po’ rigida e forzata: una vita in cui l’amore autentico non può sgorgare; sono persone alla soglia dell’indurimento, prossime all’accecamento spirituale.

Grazie a Dio, molto più spesso non è così: è più frequente che noi conosciamo bene la nostra debolezza ma senza sapere come gestirla. Essa ferisce inconsciamente l’immagine ideale di noi stessi che portiamo sempre con noi. Spontaneamente pensiamo che la santità va ricercata nella direzione opposta al peccato e contiamo su Dio perché il suo amore ci liberi dalla debolezza e dal male e ci permetta così di raggiungere la santità. Ma non è così che Dio agisce con noi: La santità non si trova all’opposto bensì al cuore stesso della tentazione, non ci aspetta al di là della nostra debolezza ma al suo interno. Sfuggire alla debolezza significherebbe sfuggire alla potenza di Dio che è all’opera solo in essa. Dobbiamo dunque imparare a dimorare nella nostra debolezza, ma armati di una fede profonda, accettare di essere esposti alla nostra debolezza e nello stesso tempo abbandonati alla misericordia di Dio. Solo nella nostra debolezza siamo vulnerabili all’amore di Dio e alla sua potenza. Dimorare nella tentazione e nella debolezza: ecco l’unica via per entrare in contatto con la grazia e per diventare un miracolo della misericordia di Dio.

È quanto è capitato a Pietro: aveva appena rinnegato il suo Maestro per la terza volta, che “il Signore, voltandosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: ‘Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte’. E uscito, pianse amaramente” (Lc 22,61-62). Che cosa ha significato quello sguardo per Pietro, possiamo solo immaginarcelo. Non fu certo una condanna: “Non sono venuto per condannare”, dice Gesù stesso (Gv 12,47). Non fu neanche un rimprovero, ma solo un amore dolce e ardente: ”Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. (…) Come un padre è tenero con i suoi figli, così è tenero il Signore” (Sal 103,8.13). E questo proprio nel momento in cui Pietro è venuto meno nei confronti di Gesù e si scopre in flagrante delitto di tradimento. In quella precisa situazione lo sguardo d’amore di Gesù lo tocca e lo ferisce e, nello stesso istante, gli offre il suo perdono d’amore. E non si limita ad accordargli il perdono, ma chiama Pietro a una nuova vita: da quel momento, infatti, Pietro è diventato un altro uomo, il suo intimo vacilla, il suo cuore si scioglie, ora sa cos’è l’amore. “Dio dimostra il suo amore verso di noi” (Rm 5,8). Pietro scoppia in lacrime, lacrime che testimoniano la ferita prodotta dallo sguardo di Gesù, lacrime amare, annota Luca. Questa è senz’altro l’impressione suscitata in coloro che hanno sorpreso Pietro in singhiozzi, ma noi possiamo anche pensare che, nel fondo del suo cuore, sono state lacrime di gioia e di riconoscenza. Gesù infatti, con quello sguardo d’amore, non ha fatto dono, di persona all’istante, di un nuovo segno del suo amore.

Non sarà l’ultima volta che lo sguardo di Gesù verrà a disturbare Pietro in modo così salutare, sconvolgendolo in profondità. L’occasione più commovente sarà nel giorno stesso della Pasqua, ma gli evangelisti non ci hanno lasciato alcun particolare sull’incontro tra Pietro e Gesù risorto. Solo una breve testimonianza, che costituisce forse il kèrygma, il più antico annuncio della resurrezione: “Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone” (Lc 24,34). Anche Paolo, quando elenca le apparizioni del risorto, vi include con risalto l’apparizione a Pietro, citata per prima: ”Fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, ed è apparso a Cefa e quindi ai dodici” (1Cor 15,4-5).

Secondo altre testimonianze, sembra che Gesù sia apparso dapprima a Maria Maddalena (cf. Mc 16.9) e successivamente a due discepoli “mentre erano in cammino verso la campagna” (Mc 16,12). Ma proprio questi due, che noi conosciamo meglio – grazie al racconto di Luca – come i discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,13-35), tornano la sera stessa di Pasqua e Gerusalemme per ascoltarvi la buona novella dalla bocca degli apostoli: Gesù è apparso a Pietro.

Ecco per Pietro un altro profondo sconvolgimento. Forse si trovava ancora sotto il peso della sua viltà e del rinnegamento di due giorni prima: Gesù era morto e sepolto, non solo per lui, ma anche per gli altri apostoli, e Pietro si sentiva responsabile di quella morte. Ben lungi da seguire Gesù fino alla morte, come aveva promesso non senza temerarietà, l’aveva molto semplicemente abbandonato e proprio nel momento più critico. All’alba del mattino di Pasqua c’era stato il problema della tomba vuota, e Pietro vi era corso assieme a Giovanni, per vedere e fare la stessa costatazione. Era vero: Il Signore era scomparso e nessuno era in grado di dire chi l’avesse preso o dove lìavesse trasportato. Per Pietro tutto questo era ancor più sconcertante.

Finchè, all’improvviso…quella stessa voce calda, quello stesso sguardo traboccante d’amore: Pietro perdonato all’istante e per sempre e, nel contempo, guarito dalla sua debolezza più profonda e ristabilito al suo posto proprio a causa di quella debolezza. Le lacrime sgorgarono di nuovo, ma questa volta indubbiamente lacrime di gioia e di riconoscenza. Gesù amava quindi Pietro così intensamente da venire a cercarlo fin nel rinnegamento e nel tradimento per poterlo incontrare in profondità. I quel caso radioso di Pasqua, Pietro fu il primo dei peccatori perdonati.

Giovanni ha riservato l’epilogo di questa avventura per il fine del suo vangelo. Si tratta di quella scena così intima e commovente in cui Gesù, per tre volte, chiede a Pietro se lo ama più degli altri (Gv 21/15-17). E per tre volte anche Pietro può dichiarargli il proprio amore, così come per tre volte l’aveva rinnegato: ”Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene!”. Con ogni probabilità, esattamente come quell’altra peccatrice dell’evangelo – Maria Maddalena – Pietro ora ama Gesù molto più di prima: anche a lui infatti è stato molto perdonato (Lc 7,47). Gesù ne trae immediatamente le conseguenze: “Pasci le mie pecorelle”. Chi ha potuto esperimentare un simile sgorgare di amore e di misericordia sarà anche il primo e il migliore testimone dell’amore. ”E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32).   

( da Louf A., Sotto la guida dello Spirito )