Se le donne salgono all’altare: l’analisi di una teologa. Che genere di liturgia (di Cettina Militello)

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In una delle mie ultime conversazioni con Silvano Maggiani, noto liturgista italiano scomparso due anni fa, ebbi a confessargli il mio disagio nel partecipare alla liturgia. Gli dicevo che mi sembrava tutto finto: i gesti, le parole, le vesti… Se mi guardo attorno – aggiungevo – vedo persone annoiate, sempre più poche e lì presenti per abitudine… Insomma niente gioia, niente comunità, niente che tocchi veramente i presenti, celebrante incluso, anch’esso poco convinto e convincente. Lo dicevo con dolore. Mi rispose che quel disagio era anche il suo. Mio coetaneo aveva vissuto l’avvio della riforma liturgica del Vaticano II , gli anni di sperimentazione ed entusiasmo, nel segno della nobile semplicità a cui andavano restituiti i riti e nel segno della partecipazione actuosa, creativa, del popolo di Dio nella sinfonia attiva dei suoi carismi-ministeri.

Sono passati quasi 60 anni dalla promulgazione della Sacrosanctum Concilium, la magna carta della riforma liturgica e, a guardarsi attorno, si capisce come quella svolta, quello sforzo non siano bastati, non fosse altro perché tutto è perennemente in movimento e chiede costante e duttile adattamento. Per non dire dei nostalgici del rito antico.

Sì, la celebrazione liturgica costituisce oggi un grosso, grossissimo problema. E uno dei suoi nodi riguarda le donne. Infatti è in essa evidente una distonia di “genere”.

Non è mai stata facile la loro partecipazione. Lasciata l’ekklesia kat’oikon, la Chiesa nelle case, dove forse esse hanno anche presieduto la Cena del Signore, il più delle volte sono state risospinte in un limbo di non partecipazione, come i laici del resto. Agostino testimonia la separazione di uomini e donne all’interno della navata e la giustifica a partire dall’intreccio delle voci maschili e femminili. Crisostomo però dice che un tempo non era così e si duole per l’essersi allontanati dallo stile delle comunità più antiche.

Certo non si spezza il legame donne-preghiera, tant’è che la vita comune, informale prima, istituzionalizzata poi in forme comunitarie, iscrive nei loro doveri la lode. Loro compito è la santificazione del tempo; e poiché la caratterizza l’uso dei Salmi e delle Scritture, è grazie a questo compito “liturgico” che sono obbligate a saper leggere e scrivere. Ciò produrrà quella teologia al femminile in cui eccellono monache illustri.

È così, ad esempio, che nella pace del monastero della Santa Croce la diacona Radegonda commissiona a Venanzio Fortunato l’inno che cantiamo ancora al Venerdì Santo. E più avanti con creatività geniale la grande Ildegarda scrive per il suo monastero l’ufficiatura, testi e musica. Anche in Oriente c’è traccia di una creatività liturgica monastica. Si attribuisce a Cassia, la sposa mancata dell’imperatore Teofilo, l’inno cantato a tutt’oggi nel rito bizantino al Mercoledì Santo…

Questa inventiva e questa funzione orante, la stessa che ancor oggi consegna il libro della Liturgia delle Ore alle monache nel contesto del Rito di professione, non ha riscontro nell’esercizio di una ministerialità liturgica al femminile. Eppure, soprattutto in Oriente, le diacone ci sono state. La loro principale funzione, la stessa che poi ne ha determinato il declino, era l’unzione delle donne al battesimo. In verità facevano anche altro. Ma non abbiamo prove inconfutabili sul loro ministero anche se le sappiamo annoverate tra il clero.

Del loro servizio è rimasta pallida traccia nelle formule relative alla professione religiosa e monastica e nel privilegio delle abbadesse di cantare/proclamare il Vangelo nel contesto della loro comunità.

Ai nostri giorni di tutto questo niente rimane. Benché sia, e di molto, cambiata la percezione e la condizione delle donne nella Chiesa, relativamente alla liturgia esse restano marginali. A presiederla, tranne nel caso di una Celebrazione domenicale in assenza di presbitero, sono soltanto maschi. Da poco le donne sono state ammesse ai ministeri del lettorato e dell’accolitato, ossia a proclamare le letture e a servire all’altare. Compiti da cui sono state lungamente escluse a ragione del loro sesso, considerato inidoneo a un ministero liturgico. Non a caso nelle disposizioni relative alla musica sacra, Pio , a inizio del Novecento, le privò del canto, giustamente considerandolo un ministero.

Sarebbe comunque riduttivo ricondurre il disagio alla sola assenza ministeriale delle donne. Il problema le tocca – né tocca soltanto loro – sotto il profilo del linguaggio. Le nostre eucologie, l’insieme delle preghiere, radicate in un bieco patriarcalismo, ne ripropongono gli stereotipi culturali. Se si pone attenzione alla declinazione di Dio “padre” si costaterà come a essere invocato/evocato è il pater familias di antica memoria, emulo e succedaneo del pater deorum. Vale lo stesso per l’aggettivazione di Dio, per l’aura sacrale che lo circonda… Resta ben poco di Colui che Gesù di Nazaret ha invocato come abba, papà, ribaltando ogni gerarchia patriarcale. E fa problema, anche la nominazione delle sante, eccezion fatta per le martiri, legata a stereotipie di genere. E ancor più risultano difficili e lontani i temi del sacrificio, della soddisfazione, del peccato, delle gerarchie di genere tra gli umani… Credo che per la maggior parte delle persone il linguaggio delle nostre liturgie risulti quanto meno estraneo. La rottura dei luoghi tradizionali di trasmissione della fede ha rese incomprensibili antiche e bellissime metafore… Ci vuole almeno un traduttore! Per non parlare delle omelie anch’esse lontane, perdutamente protese a toccare e stigmatizzare l’oggi, mai dirette a offrire la chiave del rito celebrato.

Sia chiaro, il rito è iscritto nella nostra struttura antropologica. E, infatti, di riti laici ne celebriamo una infinità. Parliamo addirittura di liturgia dello stadio con un ribaltamento di metafora. In questione, dunque, non è il rito. Il verbo celebrare implica il reiterare un’azione e leithurghia risulta di laos (popolo) ed urghia (azione). A rigor di termini dunque dovrebbe trattarsi di un’azione che vede coinvolto tutto il popolo di Dio uomini e donne i quali, poi, rendono culto al Padre per Cristo e nello Spirito. Ma, fuori dalla nostra cerchia ristretta, chi capirebbe di che sto parlando?

Le nostre chiese si svuotano, le donne di mezza età, le giovani e i giovani non le frequentano più, certo per quella frattura che ha fatto perdere il codice di riconoscimento e della chiesa edificio e della Chiesa di pietre vive che noi siamo.

Un unico nome lega infatti l’edificio e il mistero. Anzi, a rigor di termini, l’edificio stesso dovrebbe fornire il codice segnaletico del mistero: l’altare è Cristo, l’ambone è il monumento della risurrezione, il battistero è il luogo della rinascita. Si diventa cristiani nella sinergia di Parola e Spirito, di Acqua e Spirito; e luogo memoriale di questa compiutezza è l’Altare, mensa preparata per compartire il Corpo e il Sangue del Signore. Insomma, siamo invitati a un banchetto festoso, che richiede conoscenza e cura reciproca, condivisione di gioie e speranze. E, come a ogni festa autenticamente tale, ognuno ha da portare il suo dono per la crescita degli altri. Invece ci trinceriamo dietro parole astruse, vestiamo paramenti desueti, ridicoli in certi dettagli; anziché protagonisti siamo astanti, fruitori passivi, ai quali per giunta si offre un pane stagionato, perché non solo non partecipiamo al calice ma neanche al pane spezzato in quella celebrazione.

Nessuno avverte il nesso che corre tra i soggetti che si raccolgono e i ministeri da essi resi fuori dalla liturgia. E la stessa ministerialità fatta anche di azioni diverse (ascoltare, rispondere, acclamare, alzarsi, stare seduti, procedere in processione…) sembra routine non esercizio del comune sacerdozio.

Si aggiunga a ciò – e il discorso va ben oltre la punta di iceberg dell’insoddisfazione femminile – la rottura della pandemia, la pretesa clericale di celebrare in assenza di popolo, l’orrida esposizione mediatica di messe insignificanti, spudoratamente sciatte o teatrali. E, a seguire, l’idea che in fondo non c’è neppure bisogno della presenza fisica: si può partecipare all’Eucaristia anche da remoto, magari recitando l’orribile formula della comunione spirituale…

Davvero la liturgia è «Chiesa in corso d’Opera» com’ebbe a dirla Crispino Valenziano, per lunghi anni docente al Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo a Roma; davvero occorre por mano alla «riforma della riforma», com’ebbe a dire Adrien Nocent, monaco belga, uno dei maggiori esperti di liturgia, coinvolto fin dagli inizi nella preparazione e nell’ attuazione della riforma liturgica voluta dal concilio Vaticano II … Occorre reinventare la liturgia e fare spazio a creatività e soggettualità nuove. Forse, solo lo si volesse, anche le cosiddette liturgie femministe, nella prepotente rivendicazione della corporeità e della natura, potrebbero suggerirci una segnaletica altra che non ha bisogno di mediazioni.

In fondo l’«in memoria di me» ha sigillato la cena ultima del Signore, ma ancor prima ha sigillato, al femminile, il gesto d’unzione della donna innominata – gesti ed eventi compiuti nella intimità ecclesiogenetica di una casa! Ne abbiamo bisogno e abbiamo bisogno di profumi e dunque di odori, gusto, vista, udito, tatto. Le nostre liturgie devono tornare a esprimere la corporalità della salvezza. Siamo il corpo di Cristo e non si tratta di una metafora.

di Cettina Militello
Teologa, vice-presidente della Fondazione Accademia Via Pulchritudinis