“Siamo semplicemente servi, abbiamo fatto quanto dovevamo fare”  di d.Andrea Lonardo

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In Lc 17, 10 troviamo, a specificare il sostantivo “servi”, l’aggettivo αχρειος, al plurale αχρειοι, “siamo servi αχρειοι”, che la traduzione CEI traduce con “siamo servi inutili”.
Il termine greco αχρειος, in età ellenistica, ha due differenti sfumature di significato, entrambi indicanti la piccolezza[1]. Il vocabolo αχρειος può indicare innanzitutto l’ “inutilità”, il non servire. Il termine proviene, infatti, dal punto di vista etimologico[2], dal verbo χραομαι, che significa “utilizzare”, “servirsi”, preceduto dall’alpha privativa.
Una seconda sfumatura di significato indica, invece, l’essere “povero”, “vile”, non nel senso morale – cioè a causa di una colpa commessa – ma a motivo dell’umiltà di condizione[3].
La traduzione italiana della CEI del versetto di Lc 17, 10 preferisce tradurre con “servi inutili”, forse a motivo del desiderio di evitare la connotazione umiliante del termine “vile”. Così facendo, però, peggiora, tradendo il senso dell’espressione. E’ evidente dal testo stesso che i servi non sono inutili – hanno lavorato!
Molto più confacente al contesto ci appare, invece, proprio la seconda sfumatura di significato: “vile”, “povero” – “siamo vili servi”, “siamo poveri servi”.
L’italiano utilizza spesso proprio il vocabolo “povero” ad indicare non tanto una povertà morale e nemmeno materiale, quanto la condizione di umiltà, di pochezza.
Ecco, allora, la nostra traduzione: “siamo semplicemente servi”, dove l’aggettivo αχρειοι è un rafforzativo del sostantivo “servi”.
L’espressione evangelica vuole esprimere che il “servire” non è qualcosa che si viene ad aggiungere alla condizione umana, come un possibile merito, come una realtà superflua ed accidentale. L’essere creatura dell’uomo, opera del Creatore, implica la disponibilità e la normalità dell’essere messi a disposizione, dell’essere chiamati a servire. Un uomo che non “servisse” avrebbe fallito la sua stessa identità, avrebbe perso la sua vita, avrebbe perso se stesso. Colui, invece, che vive la sua esistenza proprio come servitore, non fa altro che rispondere a quel disegno iscritto nella sua stessa vita, nello stesso disegno divino che lo ha generato. Ecco perché non è necessaria una ricompensa, ecco perché il servire non diviene motivo di rivendicazioni. Tornano alla mente le parole di Paolo: “Non è un vanto per me, l’annunciare il vangelo. E’ un dovere per me. Guai a me se non predicassi il vangelo!” (1 Cor 9, 16).

 

Note

[1] Cfr., per l’uso ellenistico e patristico del termine, il fondamentale A greek-english lexicon of the New Testament and other early christian literature di W:Bauer, nella seconda edizione rivista ed accresciuta da F.W.Gingrich e F.W.Danker, The university of Chicago press, Chicago e Londra, 1958, p.128.

[2] Crediamo non sia inutile ricordare qui che lo studio etimologico non determina univocamente il significato di una parola al momento in cui è utilizzata e scritta, ma, eventualmente, solo la sua storia passata. Un termine può avere etimo, origine, in un’altra, ma poi allontanarsi profondamente da quell’origine e venire ad assumere un significato molto diverso. Inoltre stesse parole variano di significato, nella stessa epoca, a seconda dei contesti in cui sono inserite (vedi, ad esempio, le espressioni idiomatiche). Cfr. su questo il volume di J.Barr, Semantica del linguaggio biblico, EDB. Bologna, 1968, che applica alcune delle moderne acquisizioni della linguistica agli studi biblici.

[3] Questa stessa sfumatura di significato è intesa nell’unica ricorrenza del termine nella traduzione della LXX e, precisamente, in 2Sam 6, 22, nell’episodio del trasporto dell’arca a Gerusalemme, quando Davide, dopo aver danzato dinanzi all’arca ed essere stato criticato da Mikal dice: “Mi abbasserò ancor più di così e mi renderò vile (αχρειος) ai tuoi occhi”. Qui è evidente che l’altro significato, “inutile”, è del tutto inadatto per una traduzione corretta. Cfr. su questo A greek-english lexicon of the Septuagint (a cura di J.Lust, E.Eynikiel, K.Hauspie), Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart, 1992, vol.I, p.75.