«RIMANIAMO VIGILI SENTINELLE NELLE COSE DI DIO, SOLO COSÌ TRASFIGUREREMO L’UMANITÀ» (Mons. Roberto Repole nuovo Vescovo di Torino)

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«Siamo in una città che ha cambiato volto e identità, qui come altrove è la globalizzazione che genera scarti sociali e disuguaglianze», ha detto monsignor Roberto Repole, ordinato vescovo e da oggi nuovo pastore della città della Mole. Aggiungendo: «Non sarò un vate, non parlerò di tutto. Alla complessità non si può far fronte con superficialità. Il cristianesimo deve diventare una risorsa spirituale, attraverso itinerari che aiutino a formare una coscienza e non solo eventi»

«Per me l’episcopato rappresenta un’ulteriore chiamata a lasciarmi incantare, abitare e condurre da quel Cristo Risorto, che mi ha affascinato e folgorato sin da fanciullo». E’ commosso monsignor Roberto Repole, 55 anni, nuovo arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, mentre rivolge il suo messaggio di saluto alle comunità che sabato 7 maggio lo festeggiano e lo accolgono. «Dopo tanti anni, dopo studi raffinati di teologia, dopo le prove della vita e persino dopo alcune amarezze vissute (pure nella stessa Chiesa), devo dire che non solo quel fascino non si è spento, ma si è addirittura dilatato a dismisura, nella sua lucente semplicità». E’ giorno solenne per le due diocesi subalpine, d’ora in poi unite “nella persona del Vescovo”. L’annuncio della nomina di Repole, chiamato dal Santo Padre a succedere a monsignor Cesare Nosiglia, 77, (che ha guidato il clero torinese negli ultimi 12 anni) era stato dato lo scorso 19 febbraio, congiuntamente a Roma e a Torino. Ma oggi è il giorno dell’ordinazione episcopale e dell’insediamento ufficiale.

Una celebrazione intensa, ricca di simboli. Officiata nello spazio antistante al Duomo di Torino, alla presenza di circa 700 fedeli, è stata presieduta dal predecessore, monsignor Cesare Nosiglia, insieme con il vescovo di Vercelli, monsignor Marco Arnolfo, e con il vescovo emerito di Susa, monsignor Alfonso Badini Confalonieri. A concelebrare c’erano più di trenta vescovi, ben 200 presbiteri e 60 diaconi. Tante le autorità civili, militari e religiose presenti. Tra loro il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, che al presule ha voluto rivolgere un caloroso messaggio di benvenuto.

Nato il 9 gennaio 1967,  sacerdote da quasi 30 anni, Repole è nato e cresciuto nella Diocesi di Torino. Da molto tempo, un “autoctono” non si insediava sulla cattedra che fu di San Massimo. L’ultimo caso è stato quello di Agostino Richelmy, figura importante nella vita cittadina (ma bisogna tornare indietro fino al 1897). Una vocazione precoce, quella del nuovo pastore, maturata all’ombra delle Alpi e della Mole. «A 11 anni» ha raccontato lui stesso «mi dissi che se Cristo era risorto poteva chiedermi qualsiasi cosa. Così ho deciso di entrare in seminario». Apprezzato per la sua grande esperienza di studioso e docente (dottorato presso la Pontificia Università Gregoriana, ha diretto la Facoltà Teologica del capoluogo piemontese ed è stato Presidente dei Teologi Italiani), don Repole (da oggi Monsignore) è anche uomo concreto, abituato a stare in mezzo alla gente, con cui sa dialogare in modo semplice e diretto. La combinazione di queste qualità lo ha reso adatto, agli occhi del Papa, a ricoprire un incarico tanto gravoso, in una città grande e complessa come Torino.

Tra i momenti più toccanti della celebrazione liturgica, la consegna del Pastorale e dell’anello (simboli del mandato episcopale), l’insediamento sulla cattedra e, soprattutto, l’imposizione delle mani sul capo del consacrato, un gesto che si riallaccia direttamente alla tradizione apostolica. “Christus traditit seipsum pro me”, ovvero “Cristo ha dato se stesso per me”, una citazione della lettera ai Galati di San Paolo: ecco il motto scelto da mons. Repole per il suo mandato. Il simbolo araldico è uno scudo rosso (emblema dell’amore del Padre) con una banda dorata (che simboleggia la fede) e tre chiodi neri che rimandano alla passione di Cristo.

«Carissimo don Roberto» ha detto monsignor Nosiglia durante l’omelia, poco prima di cedere il pastorale al successore «oggi inizia per te una nuova vita che saprai senza dubbio gestire nel migliore dei modi secondo la tua esperienza e competenza. Anche se l’episcopato esige una tensione spirituale e pastorale, e non va mai dato nulla per acquisito, perché è una costante novità, di cui devi essere capace di farti partecipe e responsabile». «Quello che fa stare in piedi un vescovo» ha poi aggiunto, citando le parole del Papa «è la sua gente. Niente e nessuno può togliere a un vescovo la gioia di essere sostenuto dal suo popolo».

Quello che attende il nuovo pastore è un compito delicato e difficile. Torino, città dei Santi Sociali, è un laboratorio di accoglienza e solidarietà, ma è anche una città che, soprattutto dopo il declino della civiltà industriale che per decenni l’ha caratterizzata, sperimenta fratture, nuove povertà e disagi profondi. A tutto questo naturalmente si affiancano le sfide di una società in profonda e rapida mutazione. «Siamo in una città», ha precisato il neoeletto pastore, durante un incontro con la stampa, poco prima dell’insediamento, «che ha cambiato volto e identità, ma questo cambiamento non riguarda solo Torino, è la globalizzazione che genera scarti sociali e disuguaglianze». «Come Chiesa, ha inoltre aggiunto, spesso continuiamo ad agire e comportarci come se vivessimo in un regime di cristianità, ovvero come se tutti fossimo cristiani. Ma oggi non è più così. Viviamo in un mondo pluralista. E questa è la sfida cui siamo chiamati. Ci è chiesto di avere un’identità dialogica, che non abbia paura di confrontarsi con il mondo». Proprio sui rapporti tra Chiesa e società civile Repole ha riflettuto a lungo, da teologo, in particolare in due testi, Il pensiero umile e L’umiltà della Chiesa. «L’Umiltà non è la debolezza, come alcuni ritengono, però non è nemmeno la forza di chi si pone affermando solo se stesso. Umiltà è invece porsi in ascolto, con fiducia».

«Aiutiamoci a vicenda a rifuggire le semplificazioni» ha proseguito. «Per affrontare la realtà straordinariamente complessa che abbiamo di fronte c’è bisogno di un pensiero profondo. E di persone che abbiano una competenza specifica, da condividere e mettere al servizio della Chiesa». «Non sarò un vate, non parlerò di tutto. La Chiesa non è il Vescovo, il Vescovo è una voce, è uno strumento. Ho bisogno di sentire accanto l’intera comunità. Il Concilio Vaticano II ci ha già indicato tanti strumenti per favorire il coinvolgimento del laicato e di tutte le componenti ecclesiali, penso, ad esempio, ai consigli pastorali parrocchiali e diocesani. Dobbiamo garantire a questi organismi tutto il peso e la vitalità che meritano».

Poi monsignor Repole ha voluto rivolgere un pensiero particolare alle nuove generazioni. «Vedo tanti ragazzi che guardano al futuro più con preoccupazione e ansia che con fiducia e speranza. Questa è una grande responsabilità per il mondo adulto, cristiani e non. Possiamo e dobbiamo dire a questi ragazzi che la vita è una cosa positiva, bella, che ha un senso. Non basta dare la vita se poi non si dà un senso. Possiamo offrire itinerari che educhino la coscienza». Un tema, quello del coinvolgimento giovanile, che si inserisce in dinamiche sociali quanto mai complesse. «La globalizzazione ha caratteristiche di grande interesse, ma dobbiamo fare attenzione che non diventi fonte di diseguaglianze profonde, come il mio predecessore, mons. Nosiglia ha tante volte sottolineato». Da qui l’invito rivolto alla città, per un impegno comune: «Ciò che riguarda tutti deve essere trattato da tutti». 

Al termine della lunga giornata che ha inuagurato il suo ministero, monsignor Repole cita una lettera di san Bruno, padre dei bCertosini,  «a Rodolfo il Verde, preposito di Reims. San Bruno confidava di vivere in un eremo con dei fratelli “che perseverando con saldezza nei loro posti di sentinella nelle cose di Dio, attendono il ritorno del Signore per aprirgli subito quando busserà”. Ecco, quel posto, quello della sentinella non è solo il posto dei monaci. È il mio posto, è il nostro posto, è il posto dei cristiani che, come dice san Pietro, rimangono sempre stranieri e pellegrini dentro questo mondo. Se torneremo con nuovo entusiasmo – pochi o tanti che siamo – ad abitare quel nostro posto, allora sbocceranno dalle nostre comunità delle opere benedette, capaci di cominciare a trasfigurare l’umanità. Se diserteremo il nostro posto, potremo anche fare tante opere, ma non ci toglieremo il gusto amaro dell’insensatezza e non avremo davvero niente da offrire ai nostri fratelli in umanità».