L’uomo salvato da Gesù (Gianluigi Corti)

Articoli home page

In queste pagine ci accosteremo ad alcune scene evangeliche che ci permetteranno di osservare il dinamismo del processo salvifico, il passaggio ad una condizione opposta a quella di partenza grazie all’intervento di Gesù, alla sua potenza vittoriosa su ogni male, e alla preghiera, lamento, protesta, fede degli uomini coinvolti in situazioni limite.

Dalla letteratura evangelica si potrebbero raccogliere anche altri brani idonei a questo scopo ad esempio: Pietro salvato dall’affogamento (Mt 14,22-33); la guarigione di un uomo dalla mano inaridita (Mc 3,1-6); il cieco di Gerico (Mc 10,46-52 e uso anche in Lc 18,35- 3); la peccatrice perdonata (Lc 7,36-5Q); l’indemoniata di Gerasa (Lc 8,26-39); i dieci lebbrosi guariti (Lc 17,11-19); la risurrezione di Lazzaro (Gv 11,1-44)… Ci limiteremo qui a questi racconti: la tempesta sedata (Mt 8,23-47); la guarigione della emorroissa e la risurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,21-43).

La tempesta sedata (Mt8,23-27)

Coerente con il suo stile Matteo ci ha lasciato un racconto essenziale nella forma, che va affrontato su un duplice piano di lettura. Gesù sta lasciando Cafarnao (8,5) per dirigersi sulla sponda sudorientale del lago di Genezaret, verso la regione dei Gadareni (8,28). Prende congedo dalla folla dialogando in forma enigmatica con due candidati alla sequela (8,19-22). Si noti come Gesù sia il primo a salire sulla barca, i discepoli non sono già pronti ai lavori necessari alla partenza e al viaggio; essi salgono solo dopo che Gesù si è imbarcato e viene usato per essi il verbo tecnico per la sequela akolouthéō (= seguire).

Il lago di Galilea sprofondato tra le colline ha l’abitudine di ribollire improvvisamente sfogandosi in tempeste violente. Coloro che sono imbarcati con Gesù fanno l’esperienza di questa consuetudine ambientale. Anche se nel gruppo vi sono pescatori di professione (4,18-22) è impossibile controllare l’imbarcazione e contrastare la prepotenza dell’acqua.

Tutti sono sommersi dai flutti e dall’angoscia della morte. Il sonno di Gesù (v. 24) è un elemento narrativo che serve a creare maggior tensione sulla situazione dei discepoli e più vivacità nel dialogo tra loro e Gesù, ma è anche uno degli elementi anticotestamentari ricuperati nel racconto. L ‘invocazione rivolta a Gesù con l’’impiego del verbo sōzein (=salvare) è di sapore liturgico (v. 25). L ‘intervento di Gesù (v. 26) trova due interlocutori: dapprima i discepoli vengono posti di fronte alla loro immotivata paura frutto solo della mancanza di fede, quindi l’energico rimprovero agli elementi della natura ristabilisce la calma. La vita dei discepoli è salva, ma fermarsi a questo punto sarebbe lasciare il cammino a metà strada.

Il messaggio di Matteo non consiste solo nel presentare la salvezza fisica dei discepoli dovuta alla potenza di Gesù superiore alle minacce della natura. In effetti questa potrebbe essere già una lettura interessante: la natura non sempre è favorevole all’uomo, anzi a volte gli mostra un’ostilità che lo sopprime; Cristo però è in grado di salvare anche da questo pericolo immane. C’è di più.

Il messaggio cristologico è assai nitido. L ‘uso del verbo epitimáō (= minacciare) viene impiegato nella versione dei LXX per i salmi 65,8; 106,9; 107,29. Così l’accaduto riletto alla luce del salterio permette di vedere in Gesù la stessa forza del Dio della creazione e dell’esodo, i grandi fatti della storia biblica a cui alludono i salmi citati.

Già si è ricordato Giona. Il primo episodio del libro profetico (Gio 1,1-16) è pure chiamato in causa. Giona prefigura il destino di Gesù in riferimento al mistero pasquale ed è Gesù stesso a rifarsi alle pagine di quel piccolo libro parlando di sé: Mt 12,38-41. Giona restò tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, Gesù rimarrà tre giorni e tre notti nel ventre della terra. Gesù conclude il paragone con questa dichiarazione: «Ecco, ora qui c’è più di Giona!» (18,41). La tempesta sedata anticipa la superiorità di Gesù rispetto a Giona, il quale dovette essere buttato in acqua per placare Dio e il mare, la sua preghiera non bastò (Gio 1,6.12.15).

L’ordine di Gesù invece basta a placare le acque grazie alla sua perfetta sintonia col Padre del quale condivide i poteri.

La superiorità di Gesù poi risplenderà definitivamente quando il terzo giorno emergerà dai flutti della morte, nella quale volontariamente si era immerso. La vittoria pasquale sarà germe di riconciliazione anche per il creato (cf Rm 8,19-21).

Si può ora accedere al piano simbolico del racconto. La scoperta dell’identità di Gesù «salva» dalle difficoltà della sequela. Questo tema è fondamentale nel brano in questione. Abbiamo già detto sopra come il verbo «seguire» venga immediatamente fornito come chiave di accesso al racconto (v. 23). Esso era già stato impiegato nei vv. 19 e 22, pertanto il rapporto tra i due episodi delle esigenze della vocazione apostolica (vv. 18-22) e della tempesta sedata (vv. 23-27) è assai stretta. Nel secondo episodio si mostra come nel seguire Gesù la vita è posta in pericolo a causa della persecuzione che la sequela porta con se.

La reazione dei discepoli di fronte al pericolo e l’intervento di Gesù smascherano l’immaturità della fede. Il discepolato è cammino di salvezza nella crescente accoglienza del mistero del Cristo che rimuove ogni paura. Questo superamento della paura è una tappa essenziale nel processo salvifico. Esso è dovuto alla presenza di Gesù che fa approdare alla maturità della fede.

Guarigione della emorroissa e risurrezione della figlia di Giairo (Mc5,21-43)

I vangeli sinottici sono concordi nell’impiego del verbo sōzein (= salvare) per il racconto in questione. Matteo lo usa solo per la donna affetta da emorragia (Mt 9,21-22); Marco e Luca lo adoperano sia per la bambina che per la donna (Mc 5,23.28.34; Lc 8,48.50). Si noti che la guarigione dell’emorroissa viene conclusa da tutti e tre gli evangelisti con la significativa espressione «la tua fede ti ha salvato» (Mt 9,22; Mc 8,34; Lc 8,48). Marco è l’evangelista che impiega più volte il verbo «salvare» (Mc 5, 23.28.34) ed è l’autore del racconto più antico e più dettagliato.

La prima scena (vv. 21-24a) ci presenta il ritorno di Gesù dalla riva orientale del lago di Genezaret dove si era recato nel territorio dei Geraseni e dove aveva operato l’esorcismo dell’indemoniato (Mc 5,1-20). Sulla sponda occidentale, in località non specificata la folla reagisce entusiasta al suo ritorno cingendolo d’assedio. Gesù sembra trattenersi volentieri con loro. In questo scenario fa la sua comparsa un uomo di classe distinta, un dirigente della sinagoga. È spinto da una tragedia familiare: la sua bambina è malata in modo gravissimo, anzi è agli estremi, versa in condizioni tali che l’unica via d’uscita che le rimane è la morte, non vi sono alternative. Giairo è consapevole che umanamente la situazione è insolubile, solo un intervento soprannaturale può riportare alla «salute» sua figlia. Per questo lo vediamo cadere ai piedi di Gesù, nonostante la sua dignità, e supplicarlo con insistenza. Si tratta di una scena assai drammatica in cui i presupposti del gesto salvifico sono brevemente, ma efficacemente presentati: situazione disperata e preghiera.

La partenza di Gesù con Giairo segna un tornante nella vicenda e nel racconto. Un altro personaggio entra ora in scena: la donna affetta da emorragia. L’episodio che la riguarda si divide in due parti. Nella prima (vv. 24b-29) viene descritta la situazione della donna e la miracolosa guarigione.

Per il lettore contemporaneo non è facile percepire il tormento della donna in tutta la sua portata. Il racconto evangelico ha steso sulla condizione della malata un velo di pudore e di discrezione che è necessario sollevare per raggiungere la profondità della difficoltà nella quale essa si trova.

Il testo evangelico recupera una «terminologia tecnica» (en rhýsei haímatos v.25) reperibile nella versione dei LXX di Lv 15,19-30 in cui viene descritta l’impurità contratta nel periodo mestruale e nelle sue anomalie, impurità contagiosa per le cose e le persone. La donna in questo stato non poteva neppure partecipare al culto dal momento che la sua impurità non l’abilitava né al contatto con gli altri né al contatto con Dio. L’emorroissa non è una semplice malata, ma una recisa dal tessuto sociale. La sua situazione è incredibilmente disturbata sia per il risvolto fisiologico e psicologico, sia per le implicanze religiose e sociali della sua disfunzione. È una donna umiliata nella sua femminilità che tra la gente si sente clandestina.

Anche questa donna umanamente non ha via d’uscita, tutti i tentativi fatti non hanno prodotto che ripetuti fallimenti e il tracollo economico. Anche per lei l’unico sbocco per la sua disperazione è l’intervento di Gesù.

Marco è stato abile nella narrazione: tutta l’anamnesi riguardante la donna è fatta da participi aoristi che creano un riuscito contrasto con l’ aoristo di háptomai (= toccare) che esprime l’azione puntuale e culminante della sequenza e che prepara ottimamente la descrizione dell’istantaneità della guarigione (v. 29). Il tocco quasi furtivo, alle spalle, da parte della donna viene dalla sua consapevolezza di contagiare chi entra in contatto con lei e prepara la seconda parte del racconto (vv. 30-34). L ‘avverbio euthýs (= subito) ripetuto ai versetti 29 e 30 crea una contemporaneità tra la guarigione della donna e la reazione di Gesù.

Gesù reagisce perché ha percepito la differente qualità del tocco ricevuto dalla donna; si è reso conto che non era uno dei casuali urti ricevuti dalla calca di gente, ma di un’azione voluta dalla fede. Ora vuole manifestare quanto nel segreto di quel corpo era accaduto.

Si potrebbe pensare che l’intenzione di Gesù non sia tanto quella di costringere la donna ad una imbarazzante confessione circa il suo passato o il suo stato fisico, ma piuttosto quello di rilevare e accreditare la sua nuova condizione di purificata e liberata, e partecipe a pieno titolo della vita collettiva. Le parole di Gesù che chiudono il racconto di questo miracolo sciolgono la donna dalla sua clandestinità e le ridonano la pace travolta dal flusso sanguigno.

Questa malata senza nome, ma con fede, ha ricevuto più di quanto si aspettasse quando pensava tra se che toccando Gesù si sarebbe salvata (v. 28). Oltre alla guarigione fisica ha ricevuto in dono il ripristino pieno della sua di dignità. La risposta di Dio al bisogno e alla fede dell’uomo e sempre sovrabbondante.

Ora riprende il racconto interrotto del viaggio alla casa di Giairo. È l’ultima scena della nostra pericope (vv. 35-43). La situazione è precipitata: la fanciulla è morta. Gli ambasciatori provenienti dalla casa di Giairo ritengono ormai inutile l’intervento di Gesù. Di fronte alla morte non rimane che il dolore e la rassegnazione. Ma Gesù invita Giairo a non associarsi al loro pensiero. Anche di fronte alla morte si può e si deve mantenere fiducia in lui: «Non avere paura, solamente credi» (v. 38). Così il cammino prosegue. Gesù non viene congedato, ma la folla sì. Comincia a stringersi il cerchio intorno a Gesù fino a ridursi all’essenziale al v. 40. Solo Pietro, Giacomo e Giovanni possono seguirlo, come avverrà successivamente per la trasfigurazione (9,2-8) e l’agonia al Getsemani (14,32-42). Questi discepoli testimoni della caparra della gloria e del dolore di Gesù sono ora coinvolti in un altro «segno pasquale».

Il contorno tipico della morte in oriente confusione, pianti, urli è già in atto nella casa di Giairo; ma Gesù lo trova fuori luogo: «La fanciulla non è morta, ma dorme» (v. 39). I presenti non raccolgono la sfida di Gesù, non accettano la rivelazione di quanto è la morte a partire dalla presenza del Cristo vale a dire non più una situazione irreversibile, senza ritorno, bensì uno stato reversibile proprio come il sonno dal quale si può essere svegliati. La denominazione che Gesù dà alla morte entrerà subito nel vocabolario cristiano (At 7,60; 13,16; 1 Cor 7,38; 11,30 ecc.).

La derisione dei presenti esplode spontanea dalle loro bocche come prima le grida. Tuttavia Gesù smantella l’apparato del lutto cacciando via tutti. La sua intenzione non è solo quella di avvolgere il miracolo nella discrezione, ma anche quella di eliminare un contesto decisamente in contrasto con l’imminente rifiorire della vita. In un clima intimo e affettuoso abitato solo dai genitori della ragazza e dagli amici di Gesù il prodigio si compie. Il vangelo riporta il gesto di Gesù e soprattutto la forza e freschezza della sua parola conservata nella fragranza del linguaggio originale e per nulla imparentata o allusiva a formule magiche: «Talità Kúm – fanciulla alzati!» (v. 41).

La ragazza si alza e fa dei giri attorno è la prova del pieno recupero della vita e delle forze. La ragazza non ha bisogno di convalescenza, ma di cibo ed anche questo ordine di Gesù ci dimostra la sua grandezza. Fino all’ultimo egli è preoccupato per gli altri e dimentico di se. Non ha importanza per lui il riconoscimento che gli è dovuto, anzi in modo quasi assurdo impone il silenzio sull’accaduto.

Giairo ha chiesto una guarigione, gli è stata donata una risurrezione. Il dinamismo è costante: nella difficoltà l’uomo si apre alla preghiera e alla fede per accogliere il dono di Dio sempre superiore alle sue aspettative. Il punto di partenza della preghiera evangelica poteva essere un asserto di questo tipo: Gesù è in grado sia di guarire i malati, sia di risuscitare i morti. Marco ha proclamato questa verità narrando e intrecciando due episodi dell’opera salvifica di Gesù che libera l’uomo da due coercizioni da cui nessun altro gli può dare scampo: la malattia e la morte.

Così è attuato il lieto annuncio del salterio: «Il nostro Dio è un Dio che salva; il Signore Dio libera dalla morte» (Sal 68,21 ).

Nota bibliografica

Mt 8,23-27:

  1. SABOURIN, Il Vangelo di Matteo , Roma 1977, voI. Il, 528-531.
  2. FABRIS, Matteo , Città di Castello 1982, 206-208.
  3. GHILKA, Il Vangelo di Matteo , Brescia 1990,464-469.

Mc 5, 21-43:

  1. l. LAGRANGE, Evangile selon Saint Marc , Paris 1966, 138-146.
  2. TAYLOR, The gospel according to St. Mark , London 21966, 289-298.
  3. PESCH, Il Vangelo di Marco , Brescia 1980, voI. 1,467-496.
  4. SCHNACKENBURG, Vangelo secondo Marco , Roma 1983, voI. 1,133-140.
  5. GNILKA, Marco , Assisi 1987, 283-301.