Il 7 luglio è stata resa pubblica l’attesa terza enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate (Cv). Si tratta della prima enciclica di questo pontificato interamente dedicata ai problemi sociali. Anche la seconda metà della Deus caritas est (2005) affrontava infatti questa problematica, ma non venne letta come enciclica sociale, quanto, giustamente, come Leitmotiv del pontificato. La Cv, rispetto alle altre encicliche sociali, porta l’impronta inconfondibile del magistero di questo Papa.
Di una nuova enciclica sociale si era parlato anche nel 2001, per rispettare la scadenza decennale invalsa dal 1931 in poi — (con la Quadragesimo anno di Pio XI) — di pubblicare un importante documento sociale per ricordare e «aggiornare» la Rerum novarum (1891), considerata il primo testo del Magistero dedicato ai problemi sociali. Probabilmente la salute di Giovanni Paolo II era già compromessa perché potesse dedicarsi a questa fatica. La nuova enciclica era stata annunciata due anni fa, in quanto destinata a celebrare il 40° della Populorum progressio (1967) di Paolo VI. Quando la stesura del testo era già a buon punto è subentrata la crisi economica internazionale; si è colta così l’occasione per aggiornarla senza però mettersi a rincorrere gli avvenimenti, cosa peraltro impossibile. Se fosse uscita due anni fa, molti suoi insegnamenti sarebbero stati oscurati e superati dal precipitare degli avvenimenti. La Cv è stata quindi ripresa e rielaborata, anche se soltanto in futuro se ne potranno conoscere la genesi e lo sviluppo. Le redazioni successive sono state parecchie (si parla di almeno quattro) e numerosi teologi e specialisti vi hanno collaborato. Nei documenti di indole sociale parte eminente svolgono di solito il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace[1] e la Congregazione per la Dottrina della Fede, con i rispettivi consultori ed esperti.
Una difficoltà supplementare è stata data dalle traduzioni, in particolare in latino e in tedesco, perché tradurre in latino taluni termini tecnici moderni come globalizzazione, speculazione finanziaria, indice di sostituzione, accantonamento di risparmio ecc. non è cosa facile. Occorre inventare nuove parole latine o espressioni equivalenti. La pubblicazione inoltre è avvenuta nel momento giusto, come dimostra anche il larghissimo favore con il quale è stata generalmente accolta. È uscita infatti alla vigilia del G8 dell’Aquila e quindi in una circostanza favorevole ben predisposta, anche se nei giorni seguenti le notizie relative all’incontro dei Capi di Stato hanno un po’ distolto l’attenzione da essa. La Cv in ogni caso ha contribuito a dare speranza, a indicare una strada, in un momento in cui il mondo, preoccupato per la grave crisi economica e incerto sul futuro, ne avvertiva il bisogno. L’enciclica infatti porta un messaggio di speranza e di fiducia e aiuta a intravedere il modo di uscire dalla crisi mondiale, invitando anzi a trasformare la depressione in occasione per avviare una ripresa animata da princìpi etici, che consentano un cammino più sicuro ed equilibrato nei prossimi anni.
Il messaggio è che l’umanità ha il compito e i mezzi per guidare il mondo in cui viviamo. Non siamo soggetti a una fatalità, ma possiamo dirigere gli avvenimenti in modo che crescano l’amore e la giustizia anche nel campo sociale ed economico.
Fino a questo momento l’enciclica ha avuto un’accoglienza indiscussa anche in ambienti solitamente critici nei confronti della Chiesa e dei suoi documenti. Trattandosi di un testo molto articolato, è probabile che ciascuno vi abbia trovato qualche cosa che condivideva ma non si sia molto preoccupato di vedere quanto il proprio modo di giudicare la realtà si conformasse all’insieme dell’enciclica.
In 30 giorni sul web in cinque lingue (italiano, francese, spagnolo, inglese e portoghese) sono stati registrati dalla Radio Vaticana 4.300 articoli sulla Cv. Aggiungendo i rilevamenti del Meltwater Group che esamina anche altre lingue, si superano i 6.000 testi. Ma i moderni media e le piattaforme digitali non sono ugualmente diffusi in tutti i continenti. In molte nazioni l’enciclica per varie settimane si è collocata al primo posto (o almeno nei primi tre posti) per numero di copie vendute nelle librerie, benché fosse disponibile on-line subito su molti siti, cattolici e non cattolici. Il «dialogo tra Chiesa ed economia», come l’aveva chiamato una volta il card. Ratzinger, ha avuto sinora un’accoglienza molto favorevole negli ambienti finanziari ed economici. Naturalmente qualche critica si è levata, o per la lunghezza del testo, o per la difficoltà del linguaggio (rilevata, ad esempio, dal New York Times) o per la quantità dei temi affrontati. Paradossalmente, ma non troppo, qualche voce più critica sui contenuti si è levata anche all’interno del mondo cattolico. Un noto teologo cattolico americano, George Weigel, ha giudicato l’enciclica una resa alle posizioni terzomondiste e ha dichiarato di non credere all’«economia del dono» di cui parla la Cv, ritenendo che questo modo di pensare pecchi di ingenuità. Ma condivide la tesi di fondo che tutte le questioni sociali, economiche e politiche, siano in ultima analisi quelle che toccano la persona umana.
Il testo
L’enciclica si articola in 79 numeri, ed è composta da un’introduzione (nn. 1-9), sei capitoli (nn. 10-77) e una conclusione (nn. 78-79). Il testo è molto complesso e articolato, nonché abbastanza lungo. Nell’edizione standard curata dalla Segreteria di Stato comprende 143 pagine, che si possono confrontare con le 101 della Sollicitudo rei socialis (1987)e le 114 della Centesimus annus (1991), le ultime due encicliche sociali, pubblicate da Giovanni Paolo II.
Data la complessità del testo è difficile farne una sintesi. La tentazione di molti commentatori è stata quella di prenderne uno o due aspetti particolari e di concentrare su di essi la propria attenzione, senza tener conto della complessità dei temi affrontati dall’enciclica. Una ulteriore difficoltà è data dal fatto che molti temi giudicati importanti, come lo Stato, la cooperazione internazionale, il sindacato, il volontariato ecc., vengono ripresi più volte, anche se con modalità diverse e approfondimenti successivi. Ne vogliamo delineare soltanto l’impianto generale, sottolineando alcune dimensioni di fondo che ci sembrano particolarmente significative. Ma riteniamo indispensabile, come è ovvio, invitare i lettori a una paziente e attenta lettura del testo dell’enciclica per coglierne la portata e il significato.
Si nota uno sforzo di unificare la materia, cioè la cosiddetta dottrina sociale della Chiesa, e di indicare lo specifico cristiano in materia sociale, in modo che l’enciclica di un Papa non venga scambiata per un testo di sociologia o di economia, o tanto meno per la proposta di una terza via ideologicamente definita. Il taglio del testo costituisce chiaramente una lettura di fede della realtà umana di oggi, ma di una fede che mira all’azione guidata dall’etica cristiana, contro le posizioni, ad esempio, liberistiche, che si affiderebbero più volentieri agli automatismi di mercato.
Lo specifico cristiano viene indicato nella particolare visione che il cristianesimo ha della persona umana, che non è soggetta al meccanismo dei fenomeni naturali o sociali. Questo avviene nella misura in cui essa si riconosce in una relazione con un Assoluto più grande di ogni uomo. Per i credenti, con Dio. Esso non sta quindi nella proposta di nuove soluzioni tecniche. A tale proposito l’enciclica ribadisce quanto già afferma la Sollicitudo rei socialis: la Chiesa non ha nuove o particolari soluzioni tecniche da proporre, né è questa la sua missione. Perciò, citando la Gaudium et spes, «essa non “pretende minimamente di intromettersi nella politica degli Stati”» (n. 9); ha una missione di verità da compiere per una società a misura d’uomo, che ne rispetti la dignità e la vocazione.
Prendendo lo spunto dalla celebre frase della Populorum progressio: «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico esso deve essere integrale, vale a dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo»[2], la Cv sottolinea che «l’autentico sviluppo dell’uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione» (n. 11). A questo tema centrale è sostanzialmente dedicata l’enciclica, che non riguarda perciò, come qualcuno aveva superficialmente affermato, temi particolari, come la globalizzazione o la crisi economica, ma l’autentico sviluppo dell’umanità secondo il piano di Dio, considerato nel mondo globalizzato di oggi. La Cv è un’enciclica che si occupa della situazione (sociale) dell’umanità nel mondo di oggi e tratta quindi molti dei temi connessi con essa. Questo spiega l’insistenza sulla realizzazione della carità nella verità. Di fatto il testo compie uno sforzo grandioso per favorire l’umanizzazione del nostro mondo dominato dall’egoismo, dai conflitti e dalla legge del più forte.
Il Papa indica le dimensioni antropologiche ed etiche senza le quali lo sviluppo umano sarà sempre incompleto o fallimentare. Non spiega invece in concreto come esse possano e debbano venire incarnate nella realtà sociale e politica del mondo di oggi: questo è un compito che tocca a tutti gli uomini e alle donne di buona volontà, anche perché, come afferma l’enciclica, non esiste una soluzione unica universalmente valida. Ponendosi in continuità con i documenti precedenti e in particolare con l’enciclica di Paolo VI, non ci si vuole limitare al semplice concetto di sviluppo inteso come uscita dei popoli dalla povertà e dalla fame, ma arrivare a indicare ciò che riguarda nella sua globalità l’intera vita umana. «L’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo» (n. 28). Tutta la Chiesa quindi quando annuncia, celebra e opera nella carità, intende promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo. Le stesse opere di giustizia, pace e sviluppo sono dimensioni fondamentali dell’evangelizzazione[3].
Il Papa delinea il progetto di Dio sull’umanità, la centralità della persona umana, e la necessità di dare un volto umano a tutti gli aspetti della vita sociale e quindi anche all’economia perché questa serva l’uomo e non se ne serva, come spesso è avvenuto e avviene. Non c’è nessun ambito dell’attività umana che sfugge alla responsabilità morale. La parola «responsabilità» ricorre 39 volte nella Cv («globalizzazione soltanto 29 volte»). La strada dello sviluppo è corretta soltanto se la carità viene esercitata alla luce della verità e se la verità è tradotta in carità, cioè nel volto attivo della fede. Un filo conduttore di fondo dell’intero testo è la verità sull’uomo e sulla donna. Più volte viene ribadito il legame tra carità e verità nella teologia, nella fede e nell’intera dottrina sociale della Chiesa. La sintesi di questi due termini viene espressa con una lucidità inedita, che aiuterà certamente in futuro anche tutti gli «operatori della carità sul campo». Sono concetti, esposti all’inizio dell’enciclica e ripresi nell’ultima parte, che ribadiscono idee che il Papa teologo Josef Ratzinger ha più volte avuto occasione di esporre.
Tutto il resto, comprese le regole per la vita sociale ed economica personale, nazionale e mondiale, deriva da questa impostazione di fondo, alla luce della quale vanno lette anche le pagine dedicate ad argomenti apparentemente estranei al campo sociale così come viene correntemente inteso: l’aborto, l’eutanasia, la bioetica, il mondo dell’informazione, il turismo ecc., tutte dimensioni antropologiche il cui stravolgimento rende poco umana la nostra civiltà, così come la vita economico-sociale viene stravolta se è intesa senza il suo fondamento. È la conseguenza di un atteggiamento che trasforma la persona in strumento anziché considerarla un fine, contro la verità messa in evidenza dalla legge naturale.
Il Papa sottolinea la continuità della propria enciclica con tutto il magistero sociale della Chiesa, rifiutando l’idea di una cesura tra un magistero sociale preconciliare e uno postconciliare, pur nella necessità di un continuo aggiornamento di esso. Si tratta di «un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo», come già Giovanni Paolo II aveva scritto nella Sollicitudo rei socialis (n. 3) citata dalla Cv. «La dottrina sociale della Chiesa illumina con una luce che non muta i problemi sempre nuovi che emergono» (n. 12).
Alcune idee portanti
L’enciclica ricorda due princìpi fondamentali o meglio due princìpi orientativi dell’azione morale: la giustizia e il bene comune (nn. 6-7). Ad essi si aggiungono, al termine dell’enciclica, il principio di sussidiarietà, quello di solidarietà e di reciprocità da connettere strettamente tra loro (nn. 57-58). Ma nelle pagine iniziali parla della giustizia per inglobarla in una concezione più completa dell’amore/carità.
La carità eccede la giustizia, perché amare è donare. La giustizia mi impone di dare all’altro ciò che è suo. Mentre il dono, frutto dell’amore, mi induce a dare del mio; ma naturalmente non posso dare all’altro del mio prima di avergli dato ciò che è suo, perché gli spetta. La giustizia è quindi inseparabile dalla carità, ne è la misura minima, «parte integrante di quell’amore “coi fatti e nella verità” (1 Gv 3,18) a cui esorta l’apostolo Giovanni» (n. 6). La carità da un lato esige la giustizia senza la quale non c’è rispetto dei diritti legittimi degli individui e dei popoli, indispensabili per la costruzione della città dell’uomo» secondo diritto e giustizia. Ma la carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono. Il dono è un tema che l’enciclica riprende più volte.
Il bene comune è pure un criterio fondamentale per l’azione. Se si ama qualcuno, si vuole il suo bene e si cerca di realizzarlo, ma accanto al bene individuale c’è quello comune, legato al vivere sociale delle persone. È un bene che non viene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale, senza la quale nessuno può realizzare pienamente se stesso conseguendo il proprio bene. «Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità» (n. 7). Questo impegno si traduce concretamente nel prendersi cura delle istituzioni giuridiche, politiche, civili, culturali che danno forma alla polis. Tale via istituzionale della carità (che l’enciclica definisce «politica») è altrettanto importante di quella che si rivolge direttamente al prossimo senza la mediazione delle istituzioni. Se è animato dalla carità, l’impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell’impegno secolare e politico. «Come ogni impegno per la giustizia, esso s’inscrive in quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l’eterno» (ivi).
Evidentemente la nozione di bene comune, in una società che si sta globalizzando, deve assumere oggi le dimensioni dell’intera famiglia umana, cioè della comunità dei popoli e delle nazioni.Nasce da qui il dovere della solidarietà, che già Giovanni Paolo II proponeva come risposta alla sempre maggiore interdipendenza esistente tra i vari popoli nel mondo di oggi. Il rischio attuale infatti, afferma Benedetto XVI, è che all’interdipendenza dei popoli non corrisponda un’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze necessaria perché ne possa scaturire uno sviluppo veramente umano. «La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli» (n. 19).
Lo sviluppo oggi
Il Papa riprende la tematica dello sviluppo ponendo a confronto l’oggi con i tempi della Populorum progressio per constatare sia i risultati raggiunti sia gli obiettivi mancati, quelli cioè che l’uomo soltanto tecnologico ha dimostrato di non avere la capacità di conseguire. Se Paolo VI, dal punto di vista economico, mirava a una crescita reale, estensibile a tutti e concretamente sostenibile, si deve dire che miliardi di persone sono usciti effettivamente dalla miseria, un dato positivo, e che molti Paesi sono diventati attori efficaci della politica internazionale. Ma esistono tuttora molti Paesi poveri (in qualche caso si può parlare addirittura di arretramento), e persistono gravi distorsioni e problemi drammatici che la crisi attuale ha reso ancora più stridenti. Il Papa elenca non pochi di questi concreti meccanismi perversi (Giovanni Paolo II avrebbe detto «strutture di peccato» come nella Sollicitudo rei socialis) molti dei quali vengono poi ripresi successivamente nell’enciclica, in contesti diversi: l’attività finanziaria per lo più speculativa, gli imponenti flussi migratori non adeguatamente gestiti, lo sfruttamento sregolato delle risorse del pianeta, la distorsione degli aiuti internazionali, l’eccessiva protezione dei brevetti soprattutto in campo sanitario ecc., mentre dall’altra parte in molti Paesi poveri persistono modelli culturali che rallentano o impediscono il processo di sviluppo. Altri processi sono più chiaramente ambivalenti, e producono effetti positivi o negativi secondo come vengono guidati, ad esempio la delocalizzazione delle imprese e la mobilità lavorativa, la tecnica e gli stessi meccanismi della globalizzazione. I vari aspetti della crisi e delle sue soluzioni sono sempre più interconnessi tra loro e «richiedono nuovi sforzi di comprensione unitaria e una nuova sintesi umanistica» (n. 21) resa necessaria dalla mancanza di riflessione, di pensiero in grado di operare una sintesi orientativa.
Il Papa tesse un grande elogio dello sviluppo: «L’idea di un mondo senza sviluppo esprime sfiducia nell’uomo e in Dio», perché «l’uomo è costitutivamente proteso verso l’“essere di più”» (n. 14). Rifiuta perciò sia il progresso tecnico fine a stesso sia l’utopia di un’umanità da far tornare allo stato di natura originario. Ma quello su cui l’enciclica insiste è la necessità di un rinnovamento culturale e la riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore, facendo della crisi un’occasione di discernimento e di nuova progettualità. Oggi sono diventati globali molti aspetti economici, finanziari, informativi, ma non i valori. Anche la caduta dei blocchi mondiali contrapposti, nel 1989-91, sarebbe stata una buona occasione per una riprogettazione globale dello sviluppo, come Giovanni Paolo II aveva chiesto a suo tempo, ma l’occasione è andata sostanzialmente perduta. Pure il dialogo tra le culture può essere creativo, ma può anche condurre a un appiattimento o a un eclettismo acritico che fa perdere il significato profondo della cultura dei vari popoli. Lo scenario mondiale è diventato più complesso. È cresciuta infatti la ricchezza in termini assoluti, che si riparte però in modi molto disuguali facendo aumentare anche le disparità.
In base alla concezione cristiana di fondo, il Papa pone chiaramente al centro dell’intero sistema culturale, politico, sociale ed economico (la stretta connessione fra i quattro aspetti ricorre più volte) la persona umana, che non può essere mai trattata come un mezzo, o peggio, come una merce, o, nel processo produttivo, come le materie prime. Questo è particolarmente evidente quando si parla, ad esempio, dell’accesso al lavoro e del suo mantenimento per tutti, considerato come una priorità, ricordando che «i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani» (n. 32). In definitiva (per rifarsi alla terminologia latina della Populorum progressio, che venne tradotta in italiano con il più riduttivo termine di «sviluppo») il «tema di fondo, il progresso, resta ancora un problema aperto» (n. 33).
L’economia per l’uomo
All’economia viene dedicata larga parte del testo, in particolare nel terzo capitolo, per sottolinearne il carattere di strumento, per quanto indispensabile, e non di fine, la sua fragilità e il rischio di usarla in modo distruttivo. «La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione poi della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo» (n. 34). L’amara esperienza della crisi ha mostrato l’incapacità del mercato di autoregolarsi, incapacità che pure in passato si era manifestata, ma senza che se ne tirassero le dovute conseguenze. Il mercato non deve essere demonizzato, perché è uno strumento che può offrire molti vantaggi, ma «non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole» (n. 36) e ha bisogno di rapporti di fiducia (che oggi è venuta a mancare, determinando una perdita grave) e di solidarietà. Il fine dell’economia non è insito in essa, e «l’attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica» (n. 36). Vi si sente l’eco della Octogesima adveniens di Paolo VI (1971) che invocava un ritorno dall’economia alla politica. Una delle espressioni più interessanti e nuove è quella dell’unità tra azione economica e azione politica, senza che si lasci alla prima il compito di produrre la ricchezza per assegnare successivamente alla politica il compito di distribuirla. «L’economia infatti ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona» (n. 45).
«La dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o “dopo” di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente» (n. 36). Trovano qui spazio considerazioni inedite in un’enciclica, come quelle sulla «responsabilità sociale dell’impresa», che deve tener conto, per esempio, del fatto che investire non è mai soltanto un fatto tecnico ma anche sociale e umano, da tenere presente.
È interessante notare che tutte queste considerazioni sull’attività economica (tradizionalmente orientata e animata dalla ricerca del profitto) vengono dal Papa inframmezzate dall’introduzione di un concetto insolito in economia, quello della gratuità e della logica del dono. «L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime e attua la dimensione di trascendenza» (n. 34). Eliminare questa dimensione della gratuità significa togliere dalla storia la speranza cristiana. Essendo dono di Dio del tutto gratuito, essa fa parte della nostra vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia, perché il dono, per sua natura, oltrepassa il merito; la sua regola è l’eccedenza. Verità e carità sono anch’essi doni, che non devono giustapporsi alla giustizia come qualcosa di successivo: «Lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità» (ivi). Non è difficile riconoscere in queste considerazioni il frutto della riflessione di numerosi studiosi ed economisti che hanno approfondito le dimensioni umane e filosofiche dell’economia. Il nome del premio Nobel Amartya Sen vale per tutti, ma non è l’unico.
L’enciclica elogia perciò, sia nel III sia nel IV capitolo, quelle forme di attività economiche che informano il proprio agire a princìpi diversi da quelli del semplice profitto, senza con questo rinunciare a produrre valore economico. Così, ad esempio, le attività no profit, anche al di là del cosiddetto Terzo Settore, il commercio equo e solidale, le attività mutualistiche e sociali, il microcredito e la cosiddetta economia civile e di comunione che sono apparse negli ultimi decenni e che non trovano spazio nel mercato tradizionale. L’enciclica lamenta che queste attività non vengano adeguatamente favorite dal sistema fiscale, giuridico ecc. come le attività ispirate alla logica del profitto, anche se si tratta di un settore diversamente ispirato: «Il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti» (n. 39). A questo proposito viene sottolineato che non si tratta soltanto di creare settori o segmenti «etici» dell’economia o della finanza, ma «l’intera economia e l’intera finanza siano etiche e lo siano non per un’etichettatura dall’esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura» (n. 45).
L’ambiente e la tecnica
Interessante è anche la considerazione della povertà come espressione della solitudine dell’uomo (capitolo V). Da questa, dal non essere amati o dalla difficoltà di amare nascono anche le povertà materiali. La categoria di relazione va approfondita e riscoperta in quanto la persona si realizza nelle relazioni interpersonali. «Non è isolandosi che l’uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio» (n. 53). Il concetto va oggi esteso anche alle relazioni tra i popoli. Soltanto se si riconosce che formiamo una sola famiglia umana (e la famiglia è il luogo privilegiato per i rapporti interpersonali di tipo gratuito e primario) si può avere un autentico sviluppo.
Inoltre, in un mondo globalizzato, nel quale i singoli Stati perdono potere, il Papa auspica la creazione di un’autorità politica mondiale (già indicata del resto da Giovanni XXIII nella Pacem in terris [1963]), senza però addentrarsi sul modo di realizzarla.
Ampie considerazioni, ben maggiori degli accenni contenuti nelle encicliche sociali precedenti, vengono dedicate al rapporto con l’ambiente e all’uso delle risorse naturali, anch’essi visti non come problemi a sé stanti, ma come parte di un discorso globalizzato in cui l’uomo è protagonista e nel quale tutto si tiene, come appunto quando si parla di sviluppo integrale: «Il libro della natura è uno e indivisibile» (n. 51). La stessa tecnica, che manipola la natura e la trasforma, è un fatto profondamente umano, legato all’autonomia e alla libertà dell’uomo. In essa, che è opera del genio umano, «si esprime e si conferma la signoria dello spirito sulla materia» (n. 69). Essa risponde alla stessa vocazione del lavoro umano a cui è intimamente legata, e consente di ridurre i rischi, di risparmiare la fatica e di migliorare le condizioni di vita. «La tecnica è l’aspetto oggettivo dell’agire umano, la cui origine e ragion d’essere sta nell’elemento soggettivo: l’uomo che opera. Per questo la tecnica non è mai solo tecnica» (ivi), né è mai autosufficiente, altrimenti diventa ambigua, come avviene quando l’uomo, interrogandosi sul come agire, dimentica di interrogarsi sui tanti perché che lo spingono ad agire. Se l’unico criterio della verità sono l’efficienza e l’utilità, la tentazione diventa quella di far coincidere il vero con il fattibile. È una delle tipiche dimensioni della mentalità odierna, secondo la quale se una cosa (un viaggio interplanetario, una nuova bomba, una manipolazione genetica radicale ecc.) è tecnicamente fattibile ed economicamente utile, la si fa, assai prima di chiedersi se sia utile e perché debba essere fatta. Ma, nota l’enciclica, «il vero sviluppo non consiste primariamente nel fare. Chiave dello sviluppo è un’intelligenza in grado di pensare la tecnica e di cogliere il senso pienamente umano del fare dell’uomo» (n. 70). Se prevale l’assolutizzazione della tecnica si realizza ancora una volta la confusione tra fini e mezzi, perpetuando disagi, incomprensioni e ingiustizie o creandone di nuove.
Fede e ragione
Un ultimo tema particolarmente caro a Benedetto XVI è quello della necessità di conciliare tra loro ragione e fede, in modo che si aiutino a vicenda. «Solo assieme salveranno l’uomo. Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell’illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione rischia l’estraniamento dalla vita concreta delle persone» (n. 74). Il Papa è convinto che senza Dio l’uomo non sappia dove andare e neppure comprendere chi sia. Ma, se è vero che lo sviluppo ha bisogno delle religioni e delle culture dei diversi popoli, è anche necessario un adeguato discernimento, perché esistono forme di «religione» che estraniano le persone le une dalle altre, anziché farle incontrare e collaborare in un progetto comune. Non tutte le religioni sono uguali. La Cv rifiuta da una parte l’esclusione della religione dall’ambito pubblico: «La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo “statuto di cittadinanza” della religione cristiana» (n. 56); dall’altra rifiuta il fondamentalismo religioso, perché in ambedue si perde la possibilità di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa. «La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano» (ivi). In epoca di fondamentalismi e di fanatismi religiosi rinascenti, ci pare un’affermazione significativa.
Le novità dell’enciclica
È difficile dire quali siano le «novità» della Caritas in veritate.
Nuovo ci pare lo sforzo poderoso di dare, alla luce della fede e dell’etica naturale, una visione di sintesi dell’intera problematica umana nel momento attuale, così carico di sfide, di tensioni, di grandi possibilità e di naufragi sempre possibili.
In secondo luogo l’enciclica volge uno sguardo di benevolenza sul nostro mondo sofferente e insieme affascinante, di cui non si limita a denunciare i mali o la malvagità. Non demonizza né l’economia, né la tecnica, né il mercato, né le varie attività economiche, anzi elogia lo sviluppo e la tecnica, ma mette in guardia dalla possibilità, purtroppo ben concreta, del loro uso distorto. Ma il male non sta in esse; sta in chi le usa, in un mondo segnato dal peccato. Già Adam Smith ammoniva a non imputare al denaro le colpe di chi lo usa.
In terzo luogo l’enciclica accoglie nel patrimonio della dottrina sociale una serie di nozioni e di realtà sinora ignorate nei maggiori testi del Magistero, come quelle di tipo finanziario, ma anche il volontariato, le forme di «economia etica», l’uso ragionevole e saggio delle risorse naturali, il concetto di «procreazione responsabile, che costituisce tra l’altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano integrale» (n. 44) e che viene raccomandata, la nozione di gratuità e di dono come fondamentale anche in economia, dove domina invece il concetto di profitto e dove tutto si vende e si compra, altrimenti non interessa. Sono idee che si sono affermate negli ultimi anni tra gli economisti più accorti, credenti e non credenti, e ai quali l’enciclica fa spazio. Altre nozioni vengono riprese con insolita determinazione e chiarezza, come la difesa delle organizzazioni sindacali (se ne parla almeno per due volte, nei numeri 25 e 64) in un’epoca nella quale esso non ha certamente vita facile, e il ruolo dello Stato, indispensabile, ma non da idolatrare né da rendere tanto protagonista da soffocare la libertà economica e di iniziativa, e l’azione dei corpi intermedi. Si parla persino di sussidiarietà fiscale (n. 60), che permetterebbe ai cittadini di decidere sulla destinazione di quote delle imposte che essi versano allo Stato.
Ma al di là di queste considerazioni, ci sembra che il testo in quanto tale renda giustizia a un mondo come il nostro sempre più complesso di cui cerca di individuare alcuni meccanismi fondamentali per poter dare loro un’«anima» più umana. Il Papa non parla mai di capitalismo (e tanto meno di socialismo), ma di fatto invita a superarlo ritornando all’economia civile nella quale la fraternità e i principio di reciprocità svolgono un ruolo di fondo È quindi un testo di speranza, quasi un richiamo all’utopia, in termini moderni, di un mondo più fraterno e più solidale. Il Papa invita a sognare, mentre siamo entrati nel nuovo secolo privi di visioni di grande portata.
La globalizzazione ha spinto a pensare ai propri interessi nazionali, regionali, etnici, in ogni caso particolari, perdendo di vista una visione di insieme che, sola, può portare allo sviluppo di tutti. L’enciclica la richiama con forza.
Inevitabilmente molti temi toccati dall’enciclica non sono stati da noi neppure accennati e altri non sono stati da essa trattati, come quelli relativi alla donna o agli armamenti e alle guerre, sulle quali ci si limita a notare, parlando delle risorse naturali: «Quante risorse naturali sono devastate dalle guerre!» (n. 51). Ma un’enciclica non è un’enciclopedia e non mancano altri documenti ed encicliche che affrontano lungamente e in modo adeguato queste tematiche.
Si tratta ora di recepire un testo così complesso e di farne argomento di riflessione per attingervi energie e idee per una trasformazione del mondo, che già in via di unificazione per alcuni aspetti, lo sia anche per le dimensioni più profonde e più vere dell’umano che consentano di pensare a un futuro migliore per tutti, grazie al lavoro di tutti.
[1] Il Pontificio Consiglio, presieduto dal card. Renato Raffaelle Martino (segretario mons. Giampaolo Crepaldi, ora nominato vescovo di Trieste) nel 2004 aveva pubblicato il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, al quale anche la Cv fa più volte riferimento.
[2] PAOLO VI, Lettera enciclica Populorum progressio, n. 14.
[3] In proposito il documento più chiaro e convincente rimane sempre l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975) con la quale Paolo VI chiuse la discussione sorta durante la terza Assemblea Generale del Sinodo dei vescovi, svoltasi l’anno precedente, senza riuscire a concludersi con un testo unitario.