«I laici in parrocchia? Missionari nel quotidiano, non finti parroci»

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Il teologo don Asolan riflette sull’Istruzione vaticana sulla parrocchia. «Non basta riadattare le strutture o aggiungere attività. C’è bisogno di “attrazione”. No alle comunità liquide»

«Quando si parla di parrocchia, non basta affidarsi alla logica dell’adattamento o della correzione. C’è bisogno di ripensare genialmente il rapporto della Chiesa con un territorio geografico e umano per favorire l’incontro autentico con le persone». Don Paolo Asolan è preside del Pontificio Istituto pastorale “Redemptor Hominis” voluto da Pio XII e collegato alla Pontificia Università Lateranense di Roma. Fra le mani ha l’Istruzione vaticana sulla “Conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa” curata dalla Congregazione per il clero. E si sofferma proprio su quella conversione sollecitata a più riprese da papa Francesco. «Ciò che ha funzionato per secoli non è più attrattivo oggi: è sotto gli occhi di tutti – afferma il docente di teologia pastorale –. Perché, se la gente ha bisogno di pregare, va in un santuario o, se vuole mettersi in ricerca dell’assoluto, decide di affrontare il Cammino di Santiago? Forse la parrocchia non fa più quello che deve fare. Ma, come ci insegna Cristo, una toppa strappata da un vestito nuovo non sarà mai adeguata in uno vecchio. Questo per dire che serve un profondo cambiamento di approccio e di mentalità».

L’Istruzione mette in guardia da azzardi che rischiano di snaturare i connotati della parrocchia. Come quello di affidare la guida a un laico, quasi potesse essere contemplato un “parroco laico”. E il testo vieta che un diacono, un consacrato o un laico sia definito «co-parroco», «pastore», «cappellano», «coordinatore», «responsabile parrocchiale». Al massimo, e in casi straordinari, può essere chiamato alla «partecipazione all’esercizio della cura pastorale », mai alla guida. «Il documento – spiega lo studioso – intende ribadire i caratteri costitutivi della comunità cristiana a fronte di sperimentazioni che, ad esempio, prevedono laici o équipe a capo di una parrocchia. Anche in questo caso spicca l’intento di arrangiare: il laicato viene adattato a un ruolo che non gli compete».

Altrettanto superata è la visione che riduce i compiti della comunità a un «trinomio ormai obsoleto», sostiene don Asolan: evangelizzazione, liturgia e carità. «Non sono tre ambiti d’impegno ecclesiale ma dimensioni che attraversano tutto quanto compie la Chiesa», chiarisce il docente. E prosegue: «Invitare a essere parrocchie missionarie non vuol dire considerare la missione un ulteriore campo di azione che quasi si aggiunge ad altri. Significare dare nuova forma al volto della comunità. Perciò la vera conversione chiede alla parrocchia di entrare nella vita di tutti i giorni, dove si affrontano le questioni del lavoro, dell’amore, dell’educazione e non semplicemente di strutturare diversamente ciò che è stato finora fatto».

Nell’Istruzione si raccomanda di sviluppare una vera e propria «arte della vicinanza». Allora un ruolo fondamentale viene svolto dai laici, non certo intesi come surrogati del prete. «Laici cristiani che già vivono immersi nella società e che di fatto sono già in missione permanente. Si tratta, quindi, di permettere che uno stile di vita che viene dal Vangelo sia supportato dalla comunità. Così da superare anche il rischio del clericalismo secondo il quale la pastorale è quella che fa il parroco», avverte don Asolan.

Punto di riferimento per imprimere uno slancio missionario è l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, magna charta del pontificato di Francesco. «È indispensabile che si realizzi concretamente l’incontro fra la fede e la realtà, trovando nuovi criteri di azione pastorale. Non basta riorganizzare: altrimenti si continuerà a ragionare in termini di servizi alla gente». Vale anche per le unità pastorali. «Non possono essere una soluzione quando vengono ispirate dalla diminuzione del clero – sostiene lo studioso –. Se sono pensate per offrire “prestazioni” ma non creano comunità, funzionano solo nell’immediato. Né è possibile limitarsi a innestare nuove attività o nuove figure ministeriali».

Ha i suoi lati negativi anche l’idea di una parrocchia che non abbia confini, dove il legame sia condizionato dalla mobilità o dalle relazioni sociali. Quasi si prospetti una parrocchia “liquida” in una società liquida. «Vado dove mi conviene, dicono in molti. In Nord Europa ci sono ormai parrocchie per i soli giovani, altre dedicate alle iniziative culturali. Ma ancora prevale il criterio dei servizi o del sentimento – sottolinea il pastoralista –. Siccome mi piace come predica un certo sacerdote, mi reco in quella parrocchia; siccome lì si fa catechismo in un determinato modo, allora la preferisco. Scelgo per comodità, non per senso di appartenenza».

La Chiesa italiana aveva anticipato la svolta missionaria della parrocchia. «È stato soprattutto con il Convegno ecclesiale nazionale di Verona del 2006 che nella Penisola si erano proposti orientamenti differenti – racconta don Asolan –. L’incontro aveva avuto al centro la testimonianza a partire da dove l’uomo vive. E indicava cinque ambiti: l’affettività; la tradizione; la fragilità; il lavoro e la festa; la cittadinanza. Ambiti che volevano esortare la Chiesa a non restare chiusa fra le mura parrocchiali. Ora si tratta di integrarli con l’Evangelii gaudium e con il discorso programmatico di Francesco alla Chiesa italiana durante il Convegno ecclesiale di Firenze del 2015. Come dice papa Bergoglio, se ci fermiamo alle strutture, le risposte saranno sempre parziali. Invece la parrocchia è chiamata a instaurare relazioni autentiche, reali, incarnate fra i cristiani e la vita: questo crea cultura, domanda, adesione e, come ripete il Papa, soprattutto attrazione».