Il mistero della Pentecoste di Jean Galot

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Nella liturgia, il tempo pasquale è vissuto nella prospettiva della festa di Pentecoste. Si corre il rischio di abituarsi così facilmente a questa prospettiva che la venuta dello Spirito Santo non risveglia molto i nostri desideri: è un evento atteso che ha la sua data nel calendario liturgico, ma lo conosciamo troppo per meravigliarci ancora del suo significato e del suo valore. Sarebbe necessario uno sforzo per entrare in questo mistero: abbiamo bisogno di una partecipazione più intima al mistero che la liturgia rende attuale, affinché esso possa esercitare la sua capacità di trasformazione della nostra vita.

Per introdurci nel mistero, possiamo riferirci alla preparazione che hanno ricevuto i primi che erano destinati a vivere il mistero, cioè a fare l’esperienza della Pentecoste. Le circostanze concrete di questa preparazione, che fu assicurata da Gesù stesso, secondo la testimonianza del Vangelo di Giovanni, mostrano che fu necessario il superamento di alcuni ostacoli, perché la venuta dello Spirito Santo potesse trovare anime ben disposte e raggiungere il proprio scopo nell’origine e nello sviluppo della Chiesa. Nell’Ultima Cena, Gesù non soltanto ha preparato i suoi discepoli alla grande prova della Passione, spiegando loro la necessità della sofferenza per la fecondità della missione apostolica e promettendo il passaggio dal dolore a una gioia abbondante e definitiva; ma ha voluto espressamente annunciare la venuta misteriosa dello Spirito Santo e illuminare i discepoli sul beneficio spirituale che avrebbero ricevuto da tale venuta. Mostrava così l’importanza che doveva essere riconosciuta all’evento della Pentecoste. Anche dinanzi all’imminenza del dramma della croce, voleva aprire l’orizzonte e suscitare una grande speranza fondata sulle promesse dell’azione futura dello Spirito Santo nei cuori.

Sorpresa dell’annuncio
L’annuncio della venuta dello Spirito Santo costituì per i discepoli una grande sorpresa. Prima dell’Ultima Cena, avevano sentito parlare poco dello Spirito Santo, ma nella Cena di addio il Maestro lo mise in luce: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,16). Sorprendente era la designazione «un altro Paraclito». Sembrava supporre che il primo Paraclito non bastasse e che ne fosse necessario un altro. I discepoli avevano accolto la predicazione di Gesù con un’adesione di fede: credevano in Gesù, e tutta la loro vita era dominata da questa fede. Gesù era il centro assoluto del loro pensiero; da lui ricevevano la luce sul significato della loro vita e del loro destino. Annunciare un altro Paraclito sembrava proporre un altro centro di fede e poteva dunque sconcertare i discepoli. Era la prima volta, secondo il linguaggio evangelico riportato da Giovanni, che Gesù si serviva del vocabolo «Paraclito». Ma esso era stato adoperato da san Giovanni per designare Gesù: «Se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paraclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati: non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1 Gv 2, 1-2).

Giovanni affronta il problema del peccato nella vita del cristiano; egli esorta i fedeli a non peccare, ma sa bene che la buona volontà non riesce sempre a evitare ogni peccato. A tale debolezza ha risposto l’intervento di Cristo come Paraclito, cioè come Difensore che ha assunto nel sacrificio di redenzione il peso dei peccati dell’umanità e la preserva dalle conseguenze disastrose delle colpe commesse. Egli ha preso la nostra difesa dinanzi al Padre e ha operato in nostro favore una riconciliazione universale che assicura la nostra pace e la nostra serenità. In questo testo, «Paraclito» ha un significato molto chiaro: non si tratta di un Consolatore ma di un Difensore, che ci pone al riparo dei danni che potrebbero venire dai nostri peccati. Egli svolge un ruolo di perpetua intercessione, che viene esercitato nel prolungamento del suo sacrificio. Non solo ha piena potenza presso il Padre perché è il Figlio, ma si è completamente sacrificato per salvarci.

Agli occhi di Giovanni, Cristo è il primo Paraclito, colui che ha assunto la difesa di tutta l’umanità peccatrice per procurarle un perdono integrale da parte del Padre, al punto che facendo ancora adesso l’amara esperienza delle nostre infedeltà non possiamo più lasciarci spaventare. Fra il Padre e noi c’è un intercessore eminente, molto attivo, che parla in nostro favore e ricorda il sangue versato sul Calvario. Con lui godiamo di una protezione perfetta. Questo ruolo corrisponde al significato primario del termine «Paraclito». Il vocabolo designa una persona che qualcuno chiama per averla presso di sé come difensore o avvocato. Nel piano divino, il Figlio è stato mandato dal Padre sulla terra per svolgere questo ruolo. Il compito di difensore o avvocato non significa un rapporto di ostilità con il Padre, che sarebbe considerato come un nemico da temere. Mandando suo Figlio, il Padre dimostra la propria benevolenza, che potrà rivelarsi concretamente nel volto del Figlio incarnato e si manifesterà nel modo estremo nel momento del sacrificio.

Tutto ciò che era stato detto prima, nella rivelazione giudaica, sulle minacce di vendetta o di ira divina in risposta al peccato viene superato con il mistero dell’Incarnazione redentrice. In reazione alle numerose offese commesse dall’umanità, c’è stata una sola risposta divina che consiste nel dono del Figlio. Il gesto paterno di dare il Figlio ha cambiato il destino dell’universo. Dobbiamo dunque riconoscere in questo gesto la più alta dimostrazione dell’amore del Padre verso l’umanità. Il Padre ha dato al mondo peccatore un perfetto difensore o protettore, il proprio Figlio.

Ma se il Padre stesso aveva voluto e designato il Figlio come Paraclito, come spiegare che Gesù annuncia la venuta di «un altro Paraclito»? L’annuncio ha certamente stupito i discepoli. Avevano collocato tutta la loro speranza in Gesù e avevano capito che egli si presentava come Salvatore. Conservavano questa fiducia nel loro Maestro; non avevano mai scoperto qualche imperfezione né qualche difetto nel suo modo di parlare o di agire. Per loro, la figura di un altro Paraclito rimaneva misteriosa.

Il Consolatore
Nell’annuncio di un altro Paraclito, il significato stesso del vocabolo «Paraclito» è posto in questione. L’origine etimologica non lascia dubbi: persona chiamata presso di un’altra come difensore. Ma è un po’ strano che, nelle parole dell’Ultima Cena, Gesù non sviluppi un insegnamento circa questa funzione di difesa, di protezione o d’intercessione attribuita al Paraclito. Egli pone l’accento sulla funzione dottrinale del Paraclito, mostrando come questi farà scoprire la verità contenuta nel messaggio evangelico. Perciò gli esegeti hanno cercato un’altra via nell’interpretazione del titolo di «Paraclito». Esso proviene da un verbo usato passivamente: essere chiamato; ma nella voce attiva, il verbo (parakalein) significa esortare, incoraggiare, consolare. L’uso biblico più caratteristico si trova all’inizio del libro della Consolazione d’Israele. «Consolate, consolate il mio popolo» (Is 40,1). Non si tratta soltanto di consolazione sentimentale, ma di un’esortazione profetica. Così si giustifica la traduzione proposta da alcuni per il titolo di Paraclito: «il Consolatore». I Padri della Chiesa seguono diverse vie; traducono «avvocato» (Tertulliano) o «consolatore» (Ilario) o ambedue «consolatore e avvocato» (Agostino).

Una corrente ha dunque interpretato il titolo «Paraclito» come fonte di «paràclesi», o di esortazione profetica, e ha riconosciuto un ruolo importante allo Spirito Santo nello sviluppo del pensiero e della vita della Chiesa. Un’altra corrente è rimasta fedele al primo significato di Paraclito, difensore o avvocato, sottolineando il valore di un intervento che protegge contro le proprie debolezze il destino eterno dell’individuo. L’interpretazione di Paraclito come «Consolatore» ha arricchito la tradizione dottrinale sullo Spirito Santo. Rimane verosimile, dal punto di vista storico, che Gesù abbia parlato ai primi discepoli, del «Paraclito» con il significato di «Difensore», testimoniato nella Prima Lettera di Giovanni, ma voleva particolarmente porre in luce il compito di diffusione della verità, che appartiene allo Spirito.

Lo Spirito di verità
L’altro Paraclito che Gesù promette ai suoi discepoli riceve il nome di «Spirito di verità». Questo nome doveva sorprendere coloro che udivano il discorso. I discepoli avevano sempre ascoltato Gesù come maestro di verità. Lo consideravano come il solo che insegnasse la verità e non erano disposti così facilmente ad ascoltare un altro maestro. Gesù stesso si era definito come unica fonte di verità quando aveva affermato: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Non solo egli possedeva e insegnava la verità, ma era la verità. Aveva fatto questa affermazione poco prima di annunciare il dono del Paraclito, che sarebbe stato anche il dono dello «Spirito di verità». Conciliava dunque nel suo pensiero le due affermazioni. Il fatto che egli fosse la verità non impediva che il Paraclito fosse lo Spirito di verità.

Ma sembra difficile porre insieme le due affermazioni, particolarmente per i discepoli che avevano sempre riconosciuto in Gesù la sola voce di verità e avrebbero giudicato una mancanza di fedeltà mettersi all’ascolto di un’altra voce. Soltanto Cristo stesso poteva dar loro la garanzia che per raggiungere la verità dovevano nel futuro affidarsi al Paraclito come «Spirito di verità». Annunciandone la venuta, anzitutto vuole far capire che lo Spirito è fonte di verità in un modo totalmente diverso dalle altre fonti di verità che possono essere trovate nel mondo: è uno Spirito «che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce» (Gv 14,17). Alla domanda: come potrà esercitare un influsso sul pensiero umano e sull’esistenza concreta della gente se nessuno può vederlo né conoscerlo, Gesù risponde che la via è aperta ai suoi discepoli: «Voi lo conoscete perché egli dimora presso di voi e sarà in voi» (Gv 14,17).

Senza saperlo, i discepoli conoscono lo Spirito; hanno con lui relazioni familiari, per il fatto che abita in loro. Vivono sotto l’influsso dello Spirito e così acquistano una conoscenza molto concreta della sua presenza. Fanno l’esperienza dell’intima azione che opera nel fondo della loro intelligenza e del loro cuore. Sentono e accolgono le sue ispirazioni; si lasciano condurre dai suoi impulsi. Scoprono in lui un mondo interiore, molto profondo e molto ricco. Questa scoperta comporta molte sorprese. Gesù desidera introdurre i suoi discepoli nell’universo spirituale costituito dallo Spirito nelle anime. La caratteristica di questo universo è la vitalità che si sviluppa in modo sempre nuovo. L’anima offre un campo segreto nel quale si formano molti sentimenti e molti atteggiamenti. Lo Spirito suscita movimenti spirituali che alzano a un livello superiore i desideri dell’individuo e propongono scopi più elevati alla sua esistenza.

Quando Gesù annuncia la presenza dello Spirito, essa appare come una nota distintiva della nuova era religiosa che viene inaugurata. La persona del Paraclito, che è Spirito di verità, viene rivelata come una novità, ma tale che possiede già il valore di una presenza attuale: lo Spirito «dimora presso di voi», ciò che significa una presenza ben stabilita e permanente; secondo la versione più verosimile del testo, egli «è in voi» (e non soltanto «sarà in voi»). Queste parole del Maestro aiutano i discepoli a scoprire in se stessi la presenza personale dello Spirito.

Presenza permanente
La prima cosa che Gesù annuncia quando dice che egli pregherà il Padre per ottenere ai suoi discepoli il dono del Paraclito è il carattere definitivo di questo dono. Il Padre «vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,16). Linguaggio particolarmente sorprendente, perché sembrava supporre che il primo Paraclito non rimanesse e che un altro fosse necessario per assicurare una presenza continua. Eppure Gesù, come primo Paraclito, prometteva una presenza senza fine. Sapeva quanto tale presenza fosse importante per i suoi discepoli e conosceva la loro reazione di timore quando egli alludeva alla sua partenza. A questo timore rispondeva con una promessa molto confortante: «Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete» (Gv 14,18-19).

La certezza di questa presenza futura era dunque legata alla permanenza di una vita superiore, che egli avrebbe personalmente vissuto, ma anche condiviso con i suoi discepoli. Con tale presenza vuole stabilire un rapporto d’intimità reciproca, che sia la proprietà caratteristica dei suoi discepoli e la garanzia della fecondità della loro missione. Egli enuncia il principio fondamentale di questa unione permanente: «Rimanete in me, e io in voi» (Gv 15,4). La fedeltà dell’«Io in voi» è sempre assicurata, mentre la risposta all’invito «Rimanete in me» può fare problema. Ma la debolezza umana può cercare appoggio nella forza divina.

Le circostanze dell’Ultima Cena contribuiscono a dare pieno valore alla promessa. La partenza verso la casa del Padre è imminente. I discepoli dovranno affrontare una prova sconvolgente e rischiano di sentirsi soli e sconcertati dal dramma che colpisce il loro Maestro. Non si rendono chiaramente conto della minaccia che si manifesta attraverso gli avvenimenti, ma Gesù molto lucidamente vede avvicinarsi il momento della crisi e deve intervenire per proteggere coloro che saranno vittime di una grande tempesta. Egli offre loro la sua presenza e stimola così il loro coraggio. Non manca niente al conforto che Gesù dà ai discepoli con la promessa della sua presenza per il tempo della prova. Ma se questa presenza basta come sostegno, perché porre l’accento anche sulla presenza dello Spirito, destinato a rimanere per sempre con i discepoli? Perché una duplice promessa, quando una sola sarebbe stata sufficiente? Viene meglio alla luce così il problema fondamentale che sorge dalle parole di Gesù: perché lo Spirito Santo, quando è già presente con tutta la sua realtà umana Cristo Salvatore?

Presenza intima
Un problema analogo concerne la presenza intima dello Spirito, da conciliare con la presenza di Cristo nell’anima. Secondo le parole riferite da Giovanni, ci sono tre aspetti della relazione d’intimità stabilita dallo Spirito con la persona del credente; essi corrispondono a tre espressioni grammaticali: lo Spirito è destinato a rimanere con noi; rimane presso di noi; è in noi.

Quando, con la richiesta di Gesù, il Padre ci dà il Paraclito, vuole che egli rimanga con noi per sempre. Abbiamo osservato che il Paraclito è la persona che chiamiamo presso di noi per difenderci e aiutarci. Viene a noi per rimanere con noi; non si tratta di una visita o di un breve incontro. Il «con noi» significa una presenza assidua e comporta un riferimento all’alleanza. Lo Spirito accompagna il credente, gli apre la via e cammina con lui; è una specie di compagno ideale che comunica la saggezza divina per orientare l’esistenza verso il suo vero scopo. Lo Spirito «rimane presso di noi», in una vicinanza che permette un dialogo da persona a persona. Egli vuole essere molto prossimo, ma senza abolire ogni distanza; vuole salvaguardare la libertà e la spontaneità dell’essere umano. Vuole anche manifestare una sollecitudine che si estenda a tutti i particolari della vita personale. Affermando infine che lo Spirito «è in noi», Cristo ci fa intravedere la profonda penetrazione di questa persona divina e del suo soffio spirituale nel nostro essere e nel nostro comportamento. Lo Spirito ha voluto non soltanto operare in noi ma riempire il nostro essere con la sua presenza, e così animare da dentro la nostra vita spirituale.

La rivelazione di questo influsso profondo dello Spirito sulla vita interiore dell’uomo doveva far nascere, nei partecipanti all’Ultima Cena, il problema delle relazioni tra Cristo e lo Spirito, perché in tutto il suo insegnamento Gesù aveva mostrato il proprio ruolo decisivo nello sviluppo della vita spirituale dei suoi discepoli. Adesso, alla fine della sua vita terrena, il Maestro sembrava voler porre in più viva luce l’azione nascosta dello Spirito.

La via verso la verità tutta intera
L’annuncio della venuta dello Spirito permette a Gesù di risolvere un problema di difficile soluzione. La vita pubblica era stata troppo breve per dare un insegnamento completo. Gesù dice ai discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso» (Gv 16,12). Nella sua predicazione egli aveva sempre rispettato i limiti di ascolto dei suoi uditori. Conosceva anche la via per rimediare alla situazione creata da un tempo troppo breve: «Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future» (Gv 16,12-13). Non senza sorpresa i discepoli hanno accolto questo annuncio. Avevano sempre riconosciuto in Gesù colui che esponeva la verità integrale. Ora sentivano dalla sua stessa bocca l’invito a rivolgere gli sguardi verso lo Spirito di verità, per poter raggiungere tutta la verità desiderata. Dovevano dunque ammettere che un passo avanti doveva ancora essere fatto verso tutta la verità, ma sapevano anche che l’avrebbero ricevuta dalla luce dello Spirito e che, con questa luce, avrebbero imparato specialmente «le cose future», cioè il significato degli avvenimenti del futuro secondo le informazioni date nell’insegnamento evangelico.

Il Maestro nell’Ultima Cena dava anche una garanzia importante per il valore della dottrina insegnata dallo Spirito: questi «dirà tutto ciò che avrà udito», cioè ricorderà e svilupperà la dottrina riportata nel Vangelo e sarà perfettamente fedele a tutto ciò che è stato rivelato da Cristo. Gesù dice del Paraclito: «Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà» (Gv 16,14). Non ci sarà nessuna rivalità e nessuna discrepanza tra le due fonti, perché lo Spirito attingerà nel pensiero di Cristo tutto ciò che appartiene alla verità intera. Lungi dal far prevalere il proprio insegnamento su quello di Cristo e dall’esporre una nuova dottrina, che avrebbe relegato nell’ombra la rivelazione contenuta nel Vangelo, lo Spirito ha come compito di glorificare Cristo, mostrando meglio, a coloro che non avevano capito correttamente le parole di Gesù, il loro vero significato e il loro profondo valore. Quando lo Spirito insegna, il suo insegnamento è completo, perché «insegna ogni cosa» (Gv 14,26), ma i complementi e la novità della verità insegnata vengono sempre da Gesù. Fa risalire alla memoria ciò che Gesù aveva detto e voluto dire: il suo insegnamento ha come proprietà di essere un ricordo illuminante.

Sottolineando questa fedeltà dello Spirito alla predicazione evangelica, Gesù conosceva la sua importanza per la vita della Chiesa. Sapeva che non sarebbero mancati tentativi per proporre cambiamenti nella dottrina e nelle istituzioni della Chiesa, rivendicando la libertà dello Spirito. Questa libertà esiste, ma nel quadro dei princìpi definitivamente istituiti e vissuti da Cristo. Un fondamento immutabile è stato stabilito e deve imporsi a tutto il futuro della Chiesa. Lo Spirito conosce tutte le intenzioni di Cristo manifestate nella fondazione della comunità cristiana, le condivide e cerca di realizzarle attraverso le vicende della storia, senza mai allontanarsi dall’ideale fissato. La conformità assoluta al programma di vita elaborato ed espresso da Cristo non significa che non ci saranno mai novità nell’azione dello Spirito. In realtà, ci sono sempre novità, perché tutto ciò che fa e insegna lo Spirito supera ciò che l’intelligenza umana può concepire e progettare. Il piano divino fa scoprire sempre nuovi orizzonti e non cessa di costruire un futuro diverso dal passato. L’infinita ricchezza che si nasconde in Dio ci viene rivelata dallo Spirito, o più esattamente lo Spirito attinge nuovi aspetti della verità nell’inesauribile novità di Cristo.

Fonte di una rivelazione che ha un carattere di novità, ricevuto da Cristo, lo Spirito ci stupisce molto spesso con le sue sorprese. L’annuncio della sua venuta, fatto da Gesù nell’Ultima Cena, è stato una grande sorpresa. I discepoli non  si aspettavano l’eventualità che qualcuno potesse assumere in futuro il posto che Gesù aveva assunto fino a quel momento come Maestro supremo di dottrina. Questa sorpresa era soltanto un inizio, seguito da altre sorprese. L’affermazione che il Paraclito era destinato a guidare i discepoli verso la verità tutta intera sembrava affidare allo Spirito un compito che era stato di Gesù.

Non meno sorprendente era il fatto che lo Spirito fosse presentato come quello che doveva glorificare Cristo spiegando il significato profondo della dottrina evangelica. Prima, Gesù si era sforzato di far capire l’eccellenza del suo insegnamento, rivelando le sue relazioni di Figlio con il Padre. Adesso, nell’Ultima Cena, rivelava un’altra persona che era allo stesso livello divino del Padre e del Figlio, perché «procedeva dal Padre» (Gv 15,26) e poteva insegnare tutto ciò che era contenuto nell’insegnamento del Figlio. La sorpresa di questa rivelazione era propriamente trinitaria: in Dio  c’era una terza Persona, che si chiamava Paraclito, come il Figlio, ma che aveva un nome più specifico: «Spirito» o «Spirito Santo» (Gv 14,25).

Si tratta dunque della più alta rivelazione: lo Spirito viene riconosciuto come «uno dei tre». Il discorso di Gesù dopo l’Ultima Cena ha comunicato ai discepoli una verità che si trovava al vertice del messaggio cristiano. Con la rivelazione della persona dello Spirito, veniva la luce sulla realtà più intima in Dio: Dio non era solamente Padre e Figlio, come Gesù aveva mostrato soprattutto quando rivelava la sua identità personale, spiegando la sua relazione filiale con un Dio che egli chiamava nel modo più familiare: «Padre». Dio era anche Spirito, e non soltanto secondo l’affermazione rivolta alla Samaritana: «Dio è Spirito» (Gv 4,24), significando la natura divina, ma anche nel senso che in Dio c’è una Persona che si chiama con il nome proprio di «Spirito».

Più tardi, nello sviluppo della vita spirituale della Chiesa, l’azione dello Spirito si manifesterà ancora con molte sorprese. Lo Spirito Santo è la persona divina che pone più in luce la sovranità gratuita che presiede alla distribuzione dei doni divini. Significativa è l’osservazione di Paolo, a proposito della concessione dei carismi che alimentano la vita della comunità: «Tutte queste cose è l’unico e medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole» (1 Cor 12,11). L’espressione che le opera «come vuole» attira l’attenzione sulla volontà dello Spirito, che ha i suoi motivi personali e può destare molte sorprese.

Sorprese
Sorpresa penosa. Siccome l’annuncio della venuta dello Spirito è stato fatto nel momento che precedeva la Passione, la sorpresa ebbe un carattere doloroso più sentito. Nell’Ultima Cena, Gesù voleva far capire ai suoi discepoli che per lui era giunta l’ora di andare al Padre: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre» (Gv 16,28). Si capisce che la prospettiva di questa partenza verso il Padre suscitava nei discepoli un profondo senso di tristezza. Ad essa il Maestro vuole rispondere non con una semplice consolazione ma con l’affermazione di un’altra verità, che dovrebbe essere fonte di gioia: «Io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò» (Gv 16,7). Affermando che la sua partenza è la condizione della venuta del Paraclito, il Maestro vuole rovesciare i tristi pensieri dei discepoli. Essi temevano una sostituzione dello Spirito a Gesù. Gesù vuole invece convincerli del vantaggio che troveranno in tale sostituzione. Vuole garantire l’eccellenza del dono del Paraclito: per loro è meglio che venga il Paraclito. Brevemente Gesù espone la speranza che comporta il dono del Paraclito. «Quando sarà venuto», assicurerà il trionfo del giudizio sulle colpe e sull’incredulità; la salita definitiva di Cristo verso il Padre e la sua vittoria sul principe di questo mondo, che è già stato condannato (cfr Gv 16,8-11). Lo Spirito Santo avrà come compito di comunicare ai credenti i frutti della Passione.

Sorpresa liberatrice. Dopo l’annuncio sorprendente della venuta dello Spirito Santo, si è prodotto l’evento della Pentecoste, che fu anche una grande sorpresa. Non nel senso che avrebbe fatto sentire più vivamente l’assenza di Gesù, ma piuttosto una sorpresa confortante e liberatrice. Gesù aveva espressamente raccomandato ai discepoli di non allontanarsi da Gerusalemme, per poter essere insieme al momento della venuta dello Spirito: come comunità dovevano ricevere lo stesso Spirito e vivere nell’unità del suo amore. Così si spiega il fatto che tutti fossero presenti nello stesso luogo quando accadde la Pentecoste. Questo era il giorno scelto dal piano divino per la nascita della Chiesa. I discepoli non conoscevano tale scelta e furono sorpresi dall’evento; la loro sorpresa fu rafforzata dal modo della manifestazione del soffio spirituale: «Venne all’improvviso dal cielo un suono, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro, ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo, e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,2-4).

Questa irruzione dello Spirito in un’assemblea radunata per la preghiera dimostra la potenza celeste che voleva dispiegarsi sulla terra, ma non ha spaventato coloro che ne erano i testimoni. Ha dato loro un nuovo dinamismo, un nuovo coraggio. Quelli che si erano radunati avevano paura dinanzi alle minacce che provenivano dagli avversari di Cristo: dopo aver fatto morire Gesù, essi volevano far scomparire quelli che credevano in lui. Le prime persecuzioni sono venute molto presto all’inizio della vita della Chiesa; infatti erano già cominciate prima della Pentecoste. I discepoli tenevano chiuse le porte della loro casa, ma quando all’improvviso lo Spirito entra nella casa per riempirla con il suo soffio, apre porte e finestre; fa della casa un centro di attività evangelizzatrice. Trasformando la casa, trasforma soprattutto il cuore dei discepoli: escono dalla casa in cui si trovano e non esitano a proclamare la Buona Notizia, a rivelare ai presenti le meraviglie compiute nell’opera di salvezza. Fanno riconoscere in Cristo, crocifisso e risorto, il Salvatore che con il battesimo dà ai credenti una nuova vita. Il momento della Pentecoste segna per gli apostoli un cambiamento totale. Non solo sono liberati dai loro timori verso avversari accaniti, ma sono animati da un impulso dinamico per il compimento della loro missione. Alcuni li accusano di essersi «ubriacati di mosto» (At 2,13); ma, deridendoli, esprimono l’autentica ebbrezza spirituale sviluppata dallo Spirito. Le conversioni ottenute il giorno di Pentecoste confermano l’efficacia dell’attività missionaria degli apostoli e il valore della loro predicazione ispirata dallo Spirito.

Il «dono delle lingue» fa discernere un altro aspetto di tale efficacia. Questo dono è stato spesso interpretato come se i discepoli avessero ricevuto la facoltà di parlare lingue straniere. Ma non vediamo altrove testimonianze di questa facoltà e sappiamo che, giunto a Roma, Pietro aveva bisogno di un interprete. Il racconto stesso dell’episodio della Pentecoste ci fa cogliere il significato del dono delle lingue: «La folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li udiva parlare la propria lingua. Erano stupefatti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: “Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?”» (At 2,6-8). Da questo racconto appare che gli apostoli parlavano l’aramaico con il loro accento galileo, che li faceva riconoscere. La meraviglia era che ognuno degli uditori sentiva questi discorsi nella propria lingua. Il dono delle lingue era dunque non quello di diverse lingue adoperate dalla stessa persona, ma di una sola lingua capita da molti uditori nella lingua propria a ognuno. Questo dono pone in luce il ruolo dello Spirito, che fa penetrare nell’intelligenza e nel cuore degli uditori la parola pronunciata nel nome di Dio.

In ogni comunicazione della parola divina, l’intervento dello Spirito Santo è essenziale. Non basta che sia pronunciata la parola; ha effetto soltanto nella misura della sua penetrazione nel pensiero e nella vita dell’individuo. Solamente lo Spirito provvede a questa penetrazione e la garantisce. Ma lo fa secondo le sue intenzioni, che possono essere molto sorprendenti. È lo Spirito che guida ognuno verso tutta la verità. Le sorprese che suscita la sua attività rivelatrice sono sempre conformi alla verità e corrispondono allo scopo fondamentale che Gesù stesso ha chiaramente enunciato: glorificare Cristo. Il giorno della Pentecoste, Pietro fa un ampio discorso per commentare l’evento, che ha stupito, ma anche liberato dalle loro paure e proiettato i discepoli in una nuova attività. Prima di tutto, l’apostolo Pietro esprime la sorpresa, affermando che lui e i suoi compagni non sono ubriachi e che c’è un mistero divino nel fatto accaduto: l’effusione dello Spirito annunciata per gli ultimi giorni, effusione che doveva estendersi a tutti gli uomini e comunicare dappertutto una mentalità profetica.

Questa grande sorpresa viene chiarita da Pietro alla luce di Gesù di Nazaret, uomo che si è fatto conoscere «per mezzo di miracoli, prodigi e segni» e che, crocifisso e risorto, è stato innalzato alla destra del Padre e ha effuso lo Spirito Santo promesso. La sorpresa era stata presente in tutta la vita terrena di Gesù e nel dramma della sua opera di salvezza. La conclusione viene formulata in termini chiari: «Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36). Secondo l’annuncio «Egli mi glorificherà», il discorso di Pentecoste esprime l’omaggio dello Spirito a Cristo.

Non solo lo Spirito glorifica Gesù facendo riconoscere in lui il Signore e il Messia, ma suscita un movimento di conversioni e di adesioni di fede che realizzano l’annuncio profetico di Gioele (3,5): «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato». Mentre nella religione giudaica invocare il Signore significava invocare Dio, adesso, dal giorno della Pentecoste, significa invocare Cristo ed essere salvato nel suo nome. Lo Spirito fa nascere nei cuori questa invocazione

Pietro incoraggia gli uditori del suo discorso a compiere il passo decisivo della conversione, chiedendo il battesimo: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati: dopo riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). La risposta a questo invito costituisce l’ultima sorpresa per il giorno di Pentecoste: tremila persone si fanno battezzare. Non è soltanto la venuta dello Spirito che è sorprendente; lo è anche la fecondità della sua azione.