Il Sinodo fino alle vite comuni. Per cerchi concentrici (di Pierangelo Sequeri)

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La sinodalità, i membri del Sinodo, se la sono trovata “servita ai tavoli”.

Letteralmente. Qualcuno, sulle prime, ha assaggiato con cautela, in punta di forchetta, leggendo e rileggendo il menu (c’è sempre, nei menu, qualche formula che è difficile decifrare). Poi la convivialità ha avuto il sopravvento: ha creato il clima, liberato gli spiriti, definito lo stile. Il contenuto della sinodalità ecclesiale, che sembrava così difficile da cercare, era già lì: e si andava formando proprio attraverso la disinvolta appropriazione del metodo della conversazione spirituale. Del resto, se parliamo di sinodalità ecclesiale, la forma è il contenuto: l’obiettivo di un “Sinodo sulla sinodalità”, che a uno sguardo puramente teorico poteva quasi sembrare un enigma difficile da sciogliere, si è sciolto adottandolo come esperienza spirituale dell’ascolto reciproco. Ciò è avvenuto non senza lieta sorpresa, per la stragrande maggioranza: riscattando i dubbi che hanno accompagnato il lungo processo di avvicinamento e ripagando la generosa fedeltà della Segreteria allo spazio che si doveva aprire anzitutto in termini di nuovo stile ecclesiale.

A cose fatte, questo esito così evidente e così assestato della natura colloquiale della Chiesa – nella sua essenza, nella sua fede, nella sua appartenenza, nella sua pratica – ci sembra un guadagno inaspettato e irreversibile, che ci giunge come dono inestimabile già in questa fase, pur ancora interlocutoria, dell’evento sinodale. Dobbiamo subito, noi tutti, trovare il modo di capitalizzarlo, trasformandolo in un punto di svolta per la Chiesa che siamo, per la Chiesa che verrà. La mortificazione di uno scomposto e aggressivo spirito di contesa, che ci è stata inflitta – e che ci siamo inflitti – in questi ultimi anni deve perdere tutte le sue apparenti ragioni e tutte le sue scandalose ostinazioni. Non appartiene alla forma cattolica, anche quando ne inalbera le sante insegne; non interpreta la comunità sinodale, anche quando reclama la libertà dei diversi.

Una colloquialità differente – e persino una dialettica – è possibile. Una Chiesa diversa è possibile. Una evangelizzazione diversa è possibile. Il seme dello “stile sinodale” è già un risultato di questa prima assemblea. Il nostro compito è quello di onorarne il dono e di assecondarne il lavoro. Dovremo scoraggiare i cacciatori di zizzania che, per non sbagliare, strappano anche il buon grano. Dovremo incoraggiare gli allegri raccoglitori di spighe, che sono pronti a moltiplicare il pane anche in povertà.

Lavoro creativo e allegro, dunque, che dovremo esercitarci a immaginare anche alla misura del gruppo e della rete, della parrocchia e della associazione, della città secolare e delle periferie abbandonate. In questi mesi, a caldo, devono apparire nella rete cattolica i nuovi tavoli della sinodalità diffusa, che si adatta alla misura di ciascuna Chiesa. In modo che il secondo e decisivo appuntamento della sinodalità radunata a Roma possa essere certo di avere il sostegno di una nuova sensibilità di popolo per la forma colloquiale che la Chiesa va assumendo. Per l’apertura di orizzonte alla forma ecclesiale della sinodalità, richiesta da una missione partecipata dell’intera comunità credente, si deve certo porre mano all’intelligenza migliore possibile dei contenuti e alle regole della fede: che devono ispirare e sostenere la Chiesa che il Signore ha voluto e gli Apostoli hanno avviato. L’immaginazione coerente di questo secondo passaggio verso una “Chiesa sinodale” – non solo stile, non solo metodo – non si può generare senza scavare in profondità questo depositum, ossia questa pietra miliare e questo lascito che arrivano fino a noi. Esso continua e si rigenera precisamente attraverso il fervore con il quale gli restituiamo intatta vitalità e contemporaneità. Per questo impegno non abbiamo ancora abbastanza linguaggio. Il gergo ecclesiastico della sua formulazione è divenuto largamente indecifrabile: non comunica esperienze pensabili, non intercetta le vite comuni. L’ascolto e il colloquio fra pastori e teologi non è una condizione cruciale per la sinodalità ecclesiale? In un mondo tecnologicamente globale e furiosamente frammentato come il nostro, il concetto stesso di “colloquio” deve essere ripensato molto profondamente.

Nel finale dell’evento sinodale, la riflessione del cardinale Carlo Aguiar Retes ha presentato una intensa e commovente evocazione dell’encliclica Ecclesiam suam di Paolo VI. Essa indica chiaramente a quale profondità deve essere scavata la forma sinodale di una Chiesa-colloquio, a tutti i livelli dell’odierna stratificazione culturale.

Riprendendo una lunga e ininterrotta tradizione, Paolo VI mostra che la Chiesa reale – ossia la Chiesa-mistero, visibile e invisibile – si irradia per cerchi concentrici su tutta la creazione e le creature: abbracciando, in modi anche molto diversi, ma ugualmente ospitali, non solo i battezzati, ma anche i più lontani e inconsapevoli cercatori di verità e di senso. L’intelletto della fede dei pastori – e il senso della fede di tutti i membri del popolo – non dovranno trarne incoraggiamento per l’allestimento di una lingua altrettanto comprensiva e comprensibile?