Nei giovani c’è una domanda religiosa. Serve una Chiesa capace di rispondere (di Paola Bignardi)

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I risultati della ricerca promossa dall’Istituto Toniolo dalla quale è scaturita la recente serie su Avvenire «Una generazione in ricerca» aprono a una lunga serie di riflessioni. Eccone alcune

«Giovani in fuga dalla religione» era il primo titolo di questa ricerca che partiva da una constatazione oggettiva: l’accelerazione con cui le nuove generazioni hanno abbandonato e stanno abbandonando la comunità cristiana e le forme tradizionali della pratica religiosa. Il fenomeno è facilmente osservabile e non avrebbe bisogno della conferma di un’indagine. Ma quali sono le ragioni di questo allontanamento? Con quali motivazioni i giovani e soprattutto le giovani si stanno defilando dalla comunità cristiana e prendendo le distanze da essa?

L’ascolto ha aperto un orizzonte che a poco a poco ha mutato il modo con cui i ricercatori hanno considerato e poi rivisto le loro ipotesi di partenza. Innanzitutto, è apparso chiaro che dietro l’etichetta di “increduli” e di “non praticanti” c’è una molteplicità di posizioni difficilmente riconducibili a uniformità. Anche l’allontanamento è plurale nelle motivazioni, perché è personale, e ogni giovane costituisce storia a sé, originale e unica.

L’abbandono del modo tradizionale di credere è espressione della ricerca di un’esperienza religiosa diversa, il cui cuore è costituito dalla spiritualità. È il rifiuto di una religione fatta di riti, alla ricerca di gesti autentici, in cui possa esprimersi la vita; è l’abbandono di una fede ridotta all’aspetto conoscitivo di verità puramente intellettuali in nome di un’apertura al mistero, all’invisibile, all’inspiegabile; è presa di distanza da una comunità formale e anonima alla ricerca di una comunità vitale, in cui sia possibile sperimentare relazioni calde e fraternità vera. La spiritualità è ricerca di sé, è interiorità, nella libertà e nell’elaborazione di proprie ragioni, percepite come un riconoscimento della propria dignità di persone.

Il giudizio sulla Chiesa e sulla qualità della sua vita non è particolarmente negativo; il problema è altrove. Nel differenziale semantico proposto agli intervistati vi è la media dei loro giudizi complessivi. La Chiesa è ritenuta utile e pulita; i problemi cominciano quando si considera il rapporto che essa ha con il mondo di oggi: la Chiesa appare soprattutto vecchia, lenta, noiosa, lontana. Chiusa alla mentalità di oggi, essa non può costituire un supporto alla ricerca di un modo nuovo di credere, in un contesto sociale e culturale percepito come cupo, minaccioso, povero di speranza. L’astrattezza delle sue posizioni la rende impermeabile, secondo gli intervistati, alle domande esistenziali, quelle che urgono maggiormente.

Leggendo le interviste e i focus group si ha l’impressione di trovarsi di fronte a panorami interiori molto ricchi e vari. Dietro l’esperienza comune di un atteggiamento critico verso la Chiesa e la sua proposta e di una presa di distanza da essa vi è una molteplicità di esperienze che parlano di sensibilità personali originali e non scontate; tuttavia, collegate come da un filo rosso che riguarda la fede e il rapporto che essa può/deve stabilire con le caratteristiche culturali di questo tempo.

Vorrei citare una delle espressioni che mi è parsa più amara e più forte. Una giovane afferma che nessuno le ha insegnato a pregare, ma al contrario a “recitare preghiere”. Il contrasto tra i due verbi – “pregare” e “recitare” – mette bene in evidenza l’esigenza di un’esperienza interiore che è fatta per connettersi al Mistero, all’Invisibile e per coinvolgere tutta la persona. Come avventurarsi senza una guida su un territorio così delicato e affascinante? A questa giovane è stato invece insegnato a “recitare”, un verbo che evoca un comportamento possibile anche senza partecipazione personale, una parola potenzialmente “falsa”, come quella di uno spettacolo teatrale che fa entrare in un personaggio altro da sé. (…)

Viene il momento in cui alcuni giovani – ma non solo loro – intuiscono che la fede è altro e decidono di abbandonare ciò che ritengono espressione impropria e inautentica di essa. Si rendono conto così che non sono andati a catechismo o a Messa la domenica per fede, ma perché era bello trovarsi con gli amici, così come era bello andare all’oratorio per chiacchierare con le amiche o fare la “partitella” a calcio; non era fede quella che induceva ad andare in Chiesa, ma lo si faceva perché costretti dai genitori e per far piacere alla nonna tanto cattolica; e nemmeno era fede quella che chiedeva di credere a una verità in maniera asettica, senza coinvolgere né la sensibilità né gli affetti, e spesso nemmeno le proprie scelte di vita; infine, non era fede quella che non riusciva a dare risposte convincenti agli interrogativi esistenziali, che soprattutto verso i sedici, diciassette anni si affacciano prepotenti.

I giovani che si affacciano alla vita adulta, con entusiasmo o con timore, vorrebbero vedere che anche la fede assume tratti da adulti, che non è la continuazione un po’ più elaborata ed esigente di quanto hanno ricevuto da ragazzi, ma è un’esperienza nuova, che assume la loro dignità di persone, che li consegna a una libertà capace di dare forma matura anche al loro modo di credere, dentro un discernimento di cui è stata consegnata la grammatica, ma non tutto lo sviluppo di un “discorso” che si fa dentro l’esistenza; che riconosce loro l’autonomia di scelte che hanno la loro radice nella coscienza, che li riconosce capaci di racconti personali, in cui la fede si intreccia strettamente con una vita personale e unica.