«PUR NELLE DIFFICOLTÀ FACCIAMO FIORIRE LA VITA, L’INVERNO CUSTODISCE GIÀ LA PRIMAVERA» (Card. ZUPPI)

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A margine del primo Festival della Missione a Milano il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ha indicato la strada per affrontare il momento storico angosciante e per una nuova evangelizzazione

La Chiesa deve rimettersi in viaggio. Uscire “fuori”. Non ha dubbi il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei intervenuto a Milano all’incontro “Far fiorire la vita – La missione Maddalena” all’interno del primo Festival della Missione evento nazionale promosso da Missio (organismo pastorale della CEI) e CIMI (Conferenza degli Istituti missionari italiani), ospitato dall’Arcidiocesi di Milano. Moderato da monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la Cultura, la carità, la missione e l’azione sociale dell’arcidiocesi di Milano, e con gli interventi di don Dante Carraro, direttore di Cuamm Medici con l’Africa, Emilce Cuda, teologa argentina e segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina e Serena Noceti, teologa, Zuppi ha risposto alle domande dei giornalisti.

La prima sui cardini per una nuova evangelizzazione: «Quelli che ci indica con chiarezza e convinzione papa Francesco. Dieci anni fa Benedetto XVI in occasione del cinquantesimo dall’inizio del Concilio Vaticano II disse “Cosa deve fare la chiesa oggi? Rimettersi in viaggio”. Ecco dobbiamo rimetterci in viaggio e ricominciare a parlare con la gente. Papa Francesco si mette in viaggio, fa come faceva mia madre che siccome eravamo in sei appena poteva ci diceva “fuori”! Papa Francesco ci dice “fuori” sennò se state qui litigate e pensate che il mondo sia qui. “Fuori”! Guardate e rendetevi conto di cosa siamo e cosa siamo chiamati a essere: questa è la missione. La distinzione classica del missionario con la barba che partiva per dieci anni e poi tornava non c’è più. È il grande dono del Concilio: la consapevolezza di seminare il Vangelo qui e ovunque in una comunione tra chiese che è molto cresciuta. Quelle chiese che cinquant’anni fa erano all’inizio sono quelle che oggi ci aiutano in tante occasioni, chiese sempre più sorelle con cui vivere la missione».

Un pensiero poi dovuto alle missionarie hanno perso la vita.  «Sono la parte migliore del nostro Paese in assoluto perché è gente che ci aiuta a capire il valore della vita e di essere italiani. Lo capiamo uscendo, non chiudendoci e non chiudendo. Voglio ricordare le ultime due donne uccise: Luisa ad Haiti e Maria in Mozambico che sono rimaste, hanno creato ponti e collegamenti. Nessuno si capisce senza capire il mondo, il locale si capisce con l’universale sennò diventa “localismo” che è la cosa peggiore che c’è perché ti chiudi e non ti capisci. E oltretutto non ti difendi. La loro storia, la loro generosità, il loro amore fino alla fine sono una lezione per tutti soprattutto per la Chiesa. Sono dei fratelli maggiori che ci aiutano a essere più consapevoli di cosa significa spendere la propria vita».

Cosa fare allora per “far fiorire la vita”, cattolici e la classe politica insieme? «Tutti e quindi anche la classe politica che ha la responsabilità di aiutarci a farlo. Essere consapevoli delle possibilità che abbiamo e guardare il futuro con speranza. Far fiorire vuol dire che c’è qualcosa che può nascere. Nell’introduzione al Consiglio permanente della Cei abbiamo parlato dell’inverno, dei tanti inverni: della natalità, dell’economia. Dobbiamo far fiorire per due motivi: uno perché siamo cristiani e i cristiani si vedono nelle difficoltà; seguono colui che le difficoltà non le ha evitate, ma affrontate come fa chi vuole bene. Nelle difficoltà far fiorire la vita. E poi, e qui mi rivolgo a tutti, guardare con speranza a questi tanti inverni e nell’inverno cercare la primavera».

Del nuovo quadro politico l’Arcivescovo non parla. «Prima va visto» commenta. Mentre sul tema interreligioso si spende in un momento in cui il mondo sembra impazzito. «Il dialogo interreligioso è importantissimo come strada di pace. Abbiamo bisogno di insistere nel dialogo. La visione che ci ha offerto il Papa con la Fratelli Tutti è qualcosa che dobbiamo iniziare a capire. È una grande visione di cui siamo solo all’inizio. La pandemia ci ha costretto a capire che siamo sulla stessa barca, purtroppo ce lo dimentichiamo troppo spesso nella convinzione che per noi sia sempre diverso; qualcuno dice che per capire “l’essere sula stessa barca” bisogna stare fuori, se stai nascosto nel suo cabinato non ti rendi conto di cosa succede sulla barca e allora questo ci aiuta a capire insieme. Così il dialogo tra credenti e non credenti che è fondamentale. All’interno della Chiesa ancora di più dove il dialogo talvolta è difficile, siamo tutti tentati di fare un monologo o di sapere già cosa diranno gli altri e non li stiamo a sentire o siamo convinti che il dialogo sia perdere la propria identità: se è così, vuol dire che l’identità non ce l’hai o che ne hai poca e allora fai il monologo che però non ha futuro. L’indicazione di Francesco di uscire è molto sana: perché ci libera e ci fa dialogare  sul serio  e confrontare sui problemi veri e non quelli che pensiamo di vedere dal chiuso».

Intervenendo all’appuntamento del Festival il cardinale Zuppi ha raccontato le due prime immagini del suo incontro con la missione. «Uno dei primi missionari studenti che venivano a Roma dove sono nato e cresciuto per studiare; avevo fatto amicizia con un ragazzo colombiano, parlava di liberazione, mi incantava il suo modo di descrivere le comunità così vive e attente. E, poi, la testimonianza di un francescano; parlava di mondi lontani come quelli che uno sogna di scoprire e raccontava la sua vita totalmente dedicata. Il sentirsi a casa e costruire un legame».

E di come l’Evangelii Gaudium gli abbia cambiato la vita. «Da una parte leggendola ho pensato “è proprio quello che pensavo, quello che volevo sentirmi dire”. La seconda reazione è stata la consapevolezza che cambia le priorità. Il Papa ha detto alcune cose più importanti di altre. Tra le tante, che i poveri non sono un terreno di cui si occupa qualcuno, ma tutti nessuno escluso ce ne dobbiamo occupare». Un cambiamento invocato con energia e con gioia: «la gioia è uno spiraglio di luce che in fondo alle tenebre ci fa essere contenti. Per cambiare, sii veramente te stesso senza paura». Tornando all’Enciclica Zuppi dice: «sono passati dieci anni e  ancora un po’ dobbiamo viverla. C’è chi dice che è disordinata, ma quello è il disordine della vita. Francesco ci dà la visione d’insieme; l’ordine va trovato camminando nella vita e non vivendola da lontano».

Una parola poi sulla riforma. «Che ci dà gioia perché ci riporta al Vangelo. Ci fa ritrovare e rivedere motivazioni per cui siamo cristiani. Il funerale della cristianità è stato fatto da un pezzo. C’è chi si illude e si chiude nei fortini della cristianità convinto di conservare così il Vangelo. Ma il Vangelo va speso non va conservato. La riforma è gioia perché ci riporta al Vangelo e alla Comunità. Quando vai in Africa quel che colpisce è che c’è comunità. Noi la vediamo poco, siamo troppo individualisti. Guardarci introno ci fa capire che c’è tanto Vangelo. Finita la cristianità scopriamo di più la Chiesa. Senza i vecchi navigatori che non sanno registrare tanta forza e consapevolezza, il vero fiorire del Vangelo. Quando nel 1870 Roma fu occupata per qualcuno era la fine del mondo e della Chiesa. Poi Paolo VI tolse tutta la fauna della reggia; facendolo sembrava che mettesse in discussione la Chiesa, che la facesse finire e invece era lì iniziava. Con quella piccola grande libertà della Città del Vaticano che è un non stato che ci rende liberi».

E allora cosa serve? Come rimanere popolo? «Sbaglieremmo a cercare subito le risposte. Vogliamo avere tutte le risposte, i preti più di tutti. Andiamo a rispolverare le risposte che già sessant’anni fa ci diede Giovanni XXIII. Dobbiamo avere la fiducia del Concilio, nella missione che riguarda tutti e nella ComunioneCosì troveremo tutte le risposte e vivremo con serenità, trovando cento volte tanto».

L’ultima battuta è sulle consegne ai missionari presenti: «Primo, voi conoscete bene il locale e l’universale: non diventate localisti ma dall’altra non perdetevi nel grande mondo. Sappiate far sintesi, la stessa che c’è nella Fratelli tutti, conferma delle cose più belle che fate e che fanno tanti di voi sparsi nel mondo. Seconda cosa, la cultura: capire che cosa succede nel mondo serve per vivere bene nella tua piccola comunità ma bisogna dare le chiavi di lettura delle cose. Don Milani insegnava a parlare, a capire, a rendersi conto. Essi che Barbiana è un buco, altro che locale; è microscopica. Bisogna dare le chiavi e voi le avete. Perché sennò si resta ignoranti e resta solo la pancia. Che è improntate ma se non la unisci al cuore e alla testa è pericolosa. Locale e universale, quindi, la cultura che non è solo capire la geopolitica ma interpretare e rendersi conto di quello che è lontano e che altrimenti sennò sembra incomprensibile. Lo stesso vale per chi vive con la povertà: deve fare cultura. Deve dire agli altri cosa vuol dire essere un profugo. E infine, riprendere il corso della comunità; la Chiesa è comunità. Noi siamo comunità e famiglia. Non solo la coppia; la famiglia è questa, La chiesa che è comunità  affettiva. Dobbiamo amarci come fratelli che è la grande risposta alla solitudine e all’individualismo. Imparando a essere la famiglia affettiva che il Signore ci ha affidato dove al primo posto devono esserci gli ultimi e i poveri».