Sant’Antonio di Padova: Inquieto perché santo

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Papa Francesco comincia la sua lettera per l’ottavo centenario della vocazione francescana di Fernando Martins de Bulhões — il giovane canonico regolare agostiniano diventato poi Antonio, e che conosciamo come “Antonio di Padova” o “Antonio da Lisbona”— con una brevissima descrizione degli eventi che festeggiamo. Colpiscono nei primi concetti riportati dal Pontefice due parole chiave: martirio e conversione.

Agli inizi della sua vocazione francescana, Fernando non aveva incontrato Francesco d’Assisi, ma i suoi frati: una comunità che lasciava trasparire il Vangelo. Ciò che lo colpisce di questa comunità è la testimonianza di vita segnata dalla radicalità e dal martirio. Direi che questo è il più genuino cammino vocazionale: porsi delle domande sulla propria vita a partire dalla testimonianza di quelli che la offrono a Dio e agli altri.

Nei miei incontri con i frati di tutto il mondo, posso verificare quanti sono i giovani entrati nell’ordine affascinati dalla testimonianza dei martiri, specialmente di quei confratelli che negli ultimi decenni hanno versato loro sangue per la causa del regno di Dio e la sua giustizia. Non tanto le parole, ma il dono di sé è ciò che fa testo nella testimonianza.

Con la parola “conversione” viene descritto non il cambio radicale della vita di un brigante, di un malfattore, ma di un giovane canonico regolare agostiniano. Impressiona molto che il Papa usi quella parola in riferimento al cambio della vocazione di Fernando (da canonico a francescano). Che vuol dire? Forse che conduceva, come canonico regolare agostiniano, una vita di dubbia morale o un’esistenza insignificante? Sappiamo che il giovane Fernando non era un conformista: anzi, aveva già intrapreso — nelle strutture monacali dei canonici — un cammino di profonda conversione, di conoscenza della Parola e di fedeltà. Ma la conversione, come descritta nelle parole di Papa Francesco, comporta «decidersi a vivere coraggiosamente il Vangelo» e «dare una svolta» alla propria vita, al punto da passare da una confortevole sistemazione alla logica di un Dio che ci vuole “in uscita”.

Le strutture, di fatto, hanno il potere di anestetizzarci. Le scelte fisse e concluse possono a volte metterci nella modalità dell’inerzia. Conversione significa, dunque, avere nel cuore la passione dell’amore di donazione, come pure le orecchie aperte nella costante ricerca di ciò che significa vivere con risolutezza il Vangelo.

Presentando il naufragio di Antonio, Papa Francesco fa un diretto riferimento alla storia di «tanti nostri fratelli e sorelle» che arrivano sulle barche in Italia, in Europa, attraversando precariamente il mare alla ricerca di un futuro migliore. Ma quella storia di un viaggio dirottato dalle tempeste, e del conseguente naufragio, è considerata da Papa Francesco come un «provvidenziale disegno di Dio», per mezzo del quale Antonio incontra Francesco d’Assisi.

Posso vedere in questa sorta di provocazione interpretativa del Papa un rinnovato invito non solo a fidarci dalla Providenza divina, ma anche a diventare noi «provvidenziale disegno di Dio» per chi è nel bisogno, nella necessità, nella marginalità; ciò vale in modo speciale per quei «nostri fratelli e sorelle» arrivati attraverso il mare.

Pensando specialmente ai giovani, Papa Francesco parla della fecondità della vita: «Rendere fecondo il cammino di ciascuno». Qui appaiono altri due concetti chiave: condivisione e passione. Sant’Antonio è ben conosciuto per la sua capacità di «condivisione con le difficoltà delle famiglie, dei poveri e disagiati» e per «la passione per la verità e giustizia», cose che in verità non possono lasciarci in pace. Da qui nasce un altro tipo di martirio: il martirio della donazione di sé, il martirio di consumarsi nel lavoro per gli altri, riconosciuti come «fratelli e sorelle».

Se si parla di fecondità, significa che da qualche parte c’è il pericolo della sterilità. Dove starebbe tale pericolo? Là dove non c’è nessuna passione, oppure dove la passione non è indirizzata alla verità e alla giustizia; là dove non si condivide nessuna difficoltà con nessuno, dove non si è disposti a subire alcuna scomodità.

Sembra che qui Papa Francesco indichi una cosa molto importante: non esiste una vita cristiana, religiosa, che possa essere simultaneamente il «chiudersi per rimanere in pace» e il «generare vita per gli altri». Non è possibile! Chi ha figli piccoli sa che il proprio riposo non è lineare, che la casa è piuttosto disordinata e le pareti coperte dai disegnini dei bambini, e che di domenica non si dorme più che nel resto della settimana. La fecondità non significa mai quiete, ordine, linearità, precisione. Infatti, è molto probabile che, se viviamo una vita tranquilla e indisturbata, in santa pace e superordinata, senza la passione dell’Amore, muoia in noi la capacità e la gioia di generare vita per gli altri, negli altri.

La condivisione delle difficoltà del prossimo è una forma molto fine di fecondità. Antonio è presentato nella lettera come qualcuno che ha condiviso le difficoltà con i più disagiati. La sottigliezza di tale fecondità è, in verità, quella del Signore: non si tratta soltanto di essere buoni o solidali con gli altri, ma di condividerne le necessità, i turbamenti, le sorti. Gesù non sfamò tutti, ma diede la propria vita per tutti. Questo passaggio della lettera è molto francescano, molto rivoluzionario. Francesco d’Assisi non ha fatto principalmente cose per i poveri, ma ha vissuto con i poveri e — addirittura — tra i lebbrosi.

Il Papa riporta pure le parole di sant’Antonio: «Vedo il mio Signore», e indirizza il suo pensiero sulla capacità di leggere la realtà in maniera simbolica, ossia scoprendo in una realtà un’altra realtà recondita: «È necessario “vedere il Signore” nel volto di ogni fratello e sorella, offrendo a tutti consolazione, speranza e possibilità di incontro con la Parola di Dio su cui ancorare la propria vita».

Scrivo dal convento dei Santi XII Apostoli, a Roma, dove — concretamente nella omonima basilica adiacente — si conservano le reliquie di san Filippo. È proprio l’apostolo Filippo che chiede a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli risponde Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14, 8-9a).  Inoltre, lo stesso Gesù dice di sé: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). Possiamo vedere il Signore in quelli che hanno fame o sete, nei forestieri, nei carcerati, negli ammalati, nei senza tetto o senza vestito: essi sono come un suo sacramento. In Gesù vediamo il Padre e il suo Amore; nei disagiati scopriamo Gesù.

Per riuscire a vedere così, ci vuole una speciale luminosità nel cuore, nello spirito, negli occhi: una luminosità che Antonio aveva sempre attinto dalla Parola. Infatti «la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4, 12).

Con questa lettera, Papa Francesco avvicina a noi la figura del santo e ci provoca a celebrarlo con coerenza evangelica. Antonio, il grande taumaturgo, protagonista di tantissimi prodigi, fu un appassionato discepolo del Vangelo, un credente abitato dalla giustizia, dall’umanità, dalla generosità, dalla misericordia, dalla verità.

La ricorrenza otto volte centenaria — dice il Papa — «susciti, specialmente nei Religiosi francescani e nei devoti di Sant’Antonio sparsi in tutto il mondo, il desiderio di sperimentare la stessa santa inquietudine che lo condusse sulle strade del mondo per testimoniare, con la parola e le opere, l’amore di Dio». Così, la lettera celebrativa si trasforma per noi in un rinnovato impulso a percorrere con radicalità e giustizia il nostro cammino, offrendo — specialmente ai disagiati — il Vangelo e una magnanima carità.

di Carlos A. Trovarelli
Ministro generale dell’Ordine dei Frati minori conventuali