Severino Dianich: «Per le chiese è tempo di rivoluzione domestica»

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In un’epoca in cui l’edificio di culto non è più il cuore delle città bisogna saper tornare al concetto di casa della comunità, accogliente e spontanea. Parla il teologo Severino Dianich

La parola “duomo” deriva da domus, casa. E “cattedra” da cathedra, vocabolo greco passato al latino che (lo sanno bene i dialetti del nord, che lo conservano in “cadrega“) voleva dire semplicemente “sedia”. Alle origini degli spazi della Chiesa c’è una dimensione domestica. È la casa il luogo della riunione dei cristiani, al punto che è l’assemblea, l’ecclesia, a dare il proprio nome allo spazio del culto, e non viceversa. La crescita della comunità, prima ancora dell’amplificarsi dell’apparato rituale, ha fatto nascere il desiderio di spazi per la liturgia più grandi e maestosi, sul modello (di nuovo, secolare e civile) della basilica. Ma la casa come abitazione della comunità e luogo di accoglienza può tornare a essere un “modello” per l’architettura religiosa? E in quali termini? Ne parla il teologo don Severino Dianich in un lungo contributo pubblicato nel nuovo numero di “Thema”, rivista dei beni culturali ecclesiastici (disponibile sul sito www.themaprogetto.it), dedicato a “ecclesiologia e architettura”. Un tema fondamentale ma spesso poco focalizzato nel dibattito, come se sfuggisse il fatto che la forma di una chiesa è prima di tutto forma della Chiesa.

Don Dianich, cosa comporta riportare al centro l’idea di casa come paradigma della progettazione per la chiesa?

Significa rimettere a fuoco la questione del culto cristiano. Il cristianesimo ha desacralizzato molti aspetti della religione, e fortemente. Basta leggere la Lettera agli Ebrei, o osservare lo stile con cui Gesù si rapporta con il tempio di Gerusalemme. O ancora la Prima lettera ai Corinzi, dove Paolo afferma che il «vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo». Questa è stata una linea forte, ripresa per altro dal Concilio Vaticano II che ignora divieti sacrali, ma storicamente annebbiata da processi di risacralizzazione che hanno investito liturgia, ministero dei pastori e infine i luoghi stessi. Si parla ancora spesso di ‘consacrazione’ di una chiesa, quando il termine corretto è ‘dedicazione’: come se i muri fossero i portatori della consacrazione, quando invece lo sono i fedeli. Nei processi di sacralizzazione dei luoghi è stata determinante la tradizione, che si rivela solo nel II millennio, della conservazione dell’eucaristia, che rende la chiesa luogo di una presenza. Ma è la celebrazione liturgica che rende casa di Dio la casa della Chiesa.

In effetti si parla di architettura sacra, di spazio sacro: ma spesso questo ‘sacro’, non solo dagli architetti, è considerato come un valore autonomo. Usiamo dunque un termine sbagliato? O meglio: in cosa consiste lo specifico del sacro cristiano?

Il sacro cristiano coinvolge la persona, come è stato in Gesù, che non era sacerdote. Il culto della vita e l’offerta del corpo spostano il senso della sacralità dai luoghi e dalle cose alla vita umana. Questo è il senso del Nuovo Testamento. Ciò non significa che il cristianesimo abbia abolito la ritualità, che anzi acquisisce tonalità e modalità diverse. Il compito dell’architetto è realizzare un luogo per le riunioni dei cristiani nel quale si possa percepire il senso della presenza di Dio, dove si possa vivere e agire alla presenza di Dio in atteggiamento di adorazione. Inoltre lo spazio della chiesa ha bisogno di essere diverso: c’è un culto nella vita e c’è un culto nel rito. Che però sono tra loro correlati. Dal punto di vista compositivo, gli spazi delle attività della comunità devono essere considerati parte essenziale della chiesa: non una aggiunta, un supplemento come invece accade. Questo rapporto tra rito e vita deve essere spazialmente espresso. Vedo il successo di nuove cappelle nella natura, luoghi magari riusciti ma che suggeriscono un senso di altrove isolato. Il carattere della chiesa è essere casa degli uomini. L’abitazione di una comunità.

In questo senso l’idea di casa nella sua riflessione riallinea anche la presenza urbana del complesso ecclesiale e di conseguenza il suo abitare la dimensione pubblica e sociale.

I committenti si proiettano sullo spazio interno, perché lì è il nodo della riforma liturgica del Vaticano II: uno spazio per accogliere una assemblea e favorirne la partecipazione attiva. Ma a livello conciliare l’esterno ha la stessa importanza. Non lo troviamo nella Sacrosanctum Concilium ma nella Gaudium et spes e nella Lumen gentium: la Chiesa non è più pensabile al di fuori del suo rapporto con il mondo. Un fatto questo che investe la dimensione urbana e pubblica del complesso ecclesiale. Ma come? A mio parere non è più possibile la monumentalità, a partire dal fatto che non è più possibile la centralità: non si costruisce più una città a par- tire dalla chiesa. Oggi l’esterno è per la testimonianza evangelica.

Eppure l’aspirazione alla monumentalità è ancora ricorrente, tanto tra i committenti quanto tra gli architetti.

Sì, è diffusa e credo vada superata. Abbiamo due esempi abbastanza recenti: la chiesa del Sacro volto a Torino, di Mario Botta, e la chiesa di Fuksas a Foligno. Quest’ultima in particolare è un esempio classico di un edificio enorme e isolato in un abitato di case basse. Che senso può avere? La caratteristica che la Chiesa si dà nella sua evoluzione pastorale è accoglienza e ospitalità. L’edificio invece incute timore, si pone come superiorità, qualcosa che aliena.

Esiste però tutto un patrimonio architettonico storico, e non necessariamente monumentale, che per ovvi motivi storici si fonda su prospettive diverse da quelle che lei racconta. Il suo ‘riorientamento’ chiama in causa il tema, che tante polemiche suscita, degli adeguamenti liturgici.

Nell’adeguamento liturgico il rispetto del patrimonio recepito incontra l’innovazione. Prima di tutto è assurdo negare l’innovazione, ce lo dice l’esperienza della stratificazione storica. Ma i criteri applicati dalle soprintendenze, che spesso ignorano le esigenze della liturgia, sono in genere molto conservatori. Detto questo, subentra il problema delle forme: quali? E come innestarsi? All’architetto si richiede di capire il clima complessivo nel quale collocarsi. La comunità cristiana non può vivere e celebrare sempre in ambienti arcaici, eppure è spesso la prima ad avere paura del nuovo. Mi pare che, più in generale, ritorni qui il problema della sacralità. Il sacro è intoccabile per definizione. Quanto più domina il senso della sacralità delle cose tanto più si crea il blocco a qualsiasi innovazione.

L’abitare, in particolare nei grandi sistemi urbani, è molto cambiato, si è rinomadizzato. Lei cita il caso francese delle maison d’Eglise, rivolte a comunità che si costituiscono in modo temporaneo, al di fuori della struttura della parrocchia.

In questo fenomeno bisogna tenere presente un elemento determinante, ma non sufficientemente entrato nella coscienza: il bisogno di luoghi di evangelizzazione. La chiesa parrocchiale è il luogo di una comunità costituita, una Chiesa piantata, una Chiesa che ha tutto, cattedrale e vescovo compresi. Questa presenza nella città è insufficiente, perché non corrisponde a una società a cui portare la novità del vangelo. Le maison d’Eglise sono la punta avanzata della Chiesa nella città, dove si cerca spazialmente l’incontro con chi è estraneo. Sono uno spazio di offerta del vangelo, dove non è necessario celebrare l’eucarestia. Ma questi spazi sono complementari a quelli tradizionali. La punta avanzata di evangelizzazione avrà bisogno che una persona, nella felice eventualità che acceda alla fede, possa abitare poi nella casa di famiglia, una comunità completa e costituita.