VINCE DESIATI CON I SUOI SPATRIATI CHE CERCANO RIFUGIO (ANCHE) NEI RITI

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La nostra recensione del romanzo di Mario Desiati, che si è aggiudicato la 76esima edizione del premio letterario sbaragliando gli avversari in finale: «Berrò il liquore nella mia terra, la Puglia, come dedica a due scrittori: Mariateresa Di Lascia e il mio amico Alessandro Leogrande»

Confermando tutti i pronostici della vigilia, Mario Desiati con il romanzo Spatriati (Einaudi) si è aggiudicato il premio Strega con 166 voti, in un’edizione sui generis perché in finale sono arrivati sette titoli e non cinque. Desiati, che era arrivato in finale anche nel 2011 con Ternitti (Mondadori), ha lasciato il secondo classificato Claudio Piersanti (Quel maledetto Vronskij, Rizzoli) a 90 voti.
Lo scrittore pugliese, 45 anni, è nato a Locorotondo e vive tra la sua Martina Franca, nella Valle d’Itria, Roma e Berlino. Dal suo romanzo Il paese delle spose infelici è stato tratto il film omonimo. Così ha commentato la vittoria subito dopo la proclamazione: «Ho deciso di aprire la bottiglia dello Strega (il rito che spetta a ogni vincitore subito dopo la vittoria, ndr) in Puglia perché voglio dedicare questo riconoscimento a Mariateresa Di Lascia, pugliese come me, che vinse questo Premio nel 1995 ma non potè ritirarlo perché morì prima, al mio amico Alessandro Leogrande, e a tutti i lavoratori dell’editoria italiana. Non basta la passione ci vuole un contratto vero».

All’uscita del libro Antonio Sanfrancesco lo aveva recensito sulle pagine di Famiglia Cristiana definendolo bello (4 stelle).

 

 

La lingua ha questo di bello: venire a patti con quel che siamo, cercare di addomesticarlo dandogli un nome perché faccia meno paura. Spatriati è una di queste parole. È il titolo dell’ultimo romanzo di Mario Desiati e nel dialetto di Martina Franca, nella Valle d’Itria, luogo d’origine dello scrittore, significa sparpagliato, disperso, incerto, irregolare, perennemente fuori posto. Non è un trasgressivo che vive ai margini per scelta ma un uomo che, lo riconosca o meno, è un “non tutto”, secondo la definizione dello psicanalista francese Lacan. Attraverso la storia di Claudia e Francesco, il loro legame ambiguo, l’infanzia in una Puglia che cambia rapidamente volto, le avventure a Londra e a Berlino, Desiati, come solo i grandi scrittori sanno fare, tratteggia il ritratto di quell’animale strano che è l’uomo, un groviglio abitato dal bisogno, che sa come soddisfare, e dal desiderio che non sa definire perché è sconcertante e irriducibile ancorché essenziale e ritornante nella sua esperienza. Le peripezie dei due protagonisti e della generazione che rappresentano sono un tentativo sempre precario e maldestro di colmare questo vuoto, chiudere il cerchio, diventare, da spatriati, uomini compiuti e realizzati. Se non per sé stessi, almeno agli occhi degli altri, il tribunale supremo di cui tutti temiamo il giudizio. L’autore, attraverso immagini vivide della sua terra e con una serie di riferimenti letterari, da Maria Corti a Rina Durante, dalla giovane poetessa Claudia Ruggeri al sociologo Franco Cassano, racconta questo tentativo con una lingua dolcissima, quando fa dire a Francesco che «quel nostro amore era la calce con cui avevamo nutrito la speranza della felicità, la più illusoria e menzognera forma di dipendenza umana». Il loro legame, mai sazio e definito e sempre sfuggente, esattamente come il desiderio, è paragonato ai muri di pietra della Puglia che gli “allattatori” nutrono con la calce e sono chiamati così perché somigliano alle madri che danno il latte ai figli. Spatriati è anche un avvertimento sulle radici che si possono conservare solo partecipando attivamente all’esistenza di una comunità. Quella che Desiati racconta magistralmente è fatta anche di una religiosità che s’incarna nel cattolicesimo scenografico e ancestrale del Sud, con le sue processioni e i suoi riti capaci di creare un legame nel tempo che ci protegge dal caos