Lettera alla Diocesi di mons. Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, pubblicata sul settimanale diocesano «La Voce e il Tempo»

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Carissime sorelle e carissimi fratelli in Cristo,

è trascorso ormai più di un mese dalla mia ordinazione e dal mio ingresso quale arcivescovo di Torino.
Durante questo tempo, ho intrapreso il mio nuovo ministero, fatto per lo più di ascolto e di incontri personali,
di visite a diverse realtà ecclesiali, di impegni istituzionali…

Tra le attività più significative di questi miei primi passi nel servizio episcopale vanno certamente
annoverate lo svolgimento dell’ultimo consiglio presbiterale e dell’ultimo consiglio pastorale diocesano
dell’anno. Nell’uno come nell’altro caso, ho cercato di pormi in ascolto di quelle che in entrambi i consessi
sono apparse come le “sfide” più impellenti e più profonde che stanno davanti al nostro cammino di Chiesa
che è in Torino. Non si è trattato, tuttavia, di un ascolto meramente passivo. I due consigli, infatti, sono stati
stimolati ad esprimersi proprio in ordine a ciò che appare decisivo guardando alla vita e alla missione della
nostra Chiesa, oggi e nel prossimo futuro.

Facendo tesoro di quanto emerso in quei contesti, di tante suggestioni, fatiche o desideri espressi da
molti nelle più svariate circostanze, di quanto richiamato nei gruppi che sono stati attivati in occasione del
cammino sinodale della Chiesa italiana oltre che, ovviamente, di una profonda convinzione personale, mi
pare evidente che, tra i diversi aspetti sui quali occorre operare un discernimento ecclesiale e compiere delle
scelte concrete, ce n’è uno che è assolutamente prioritario.
Si tratta del ripensamento della presenza ecclesiale sul territorio.

È sotto gli occhi di tutti, infatti, il fatto che il numero dei preti è in calo ormai da decenni e che la loro
età media è piuttosto elevata. È meno evidente ai più, anche se non meno significativo, il fatto che anche il
numero dei cristiani che vivono una qualche reale appartenenza alla Chiesa è di molto inferiore rispetto al
passato. Insomma, si tratta di guardare con lucidità la realtà e prendere sempre più profondamente coscienza
che la nostra società non è più “normalmente cristiana”. Eppure, noi siamo ancora strutturati – a partire dalle
nostre parrocchie – nell’implicito che tutti siano cristiani; e operiamo, a diversi livelli, sulla base della implicita
convinzione che sia così, con il grave rischio di investire tantissime risorse in attività pastorali che sembrano
non portare frutto, di non provare ad investire (all’inverso!) energie laddove si tratterebbe di osare qualche
percorso nuovo e, soprattutto, di perdere noi per primi il gusto della vita cristiana e di una serena e gioiosa
sequela del Signore. Appare sempre più chiara, dunque, la necessità anche urgente di ridisegnare il nostro
modo di esistere, come Chiesa, sul territorio, al fine di continuare qui ed ora ad essere ciò che dobbiamo
essere e ad offrire il Vangelo alle donne e agli uomini che incontriamo e lo desiderano. Non farlo,
significherebbe rimanere schiacciati da un passato che ci impedisce di compiere la nostra missione nel
presente e, dunque, di essere fedeli a Cristo.

Alcuni semplici esempi, posti in forma interrogativa, possono aiutare ad esplicitare quanto su
espresso. Dobbiamo continuare a mantenere semplicemente tutte le infinite strutture di cui beneficiamo
(locali, case, chiese, oratori…) anche se – invece che servire a vivere una vita cristiana ed ecclesiale autentica
ed essere degli strumenti per l’evangelizzazione – costituiscono un peso insopportabile, per chi è chiamato a
gestirle, rubando energie, serenità e gioia? Possiamo continuare a mantenere tutte le parrocchie,
immaginando che vi si svolga tutto quello che vi si svolgeva nel passato, chiedendo ad un prete che- invece
di essere parroco di una comunità – lo sia di diverse, senza però cambiare nulla? Come si può immaginare,
facendo così, che i preti possano vivere una vita serena, possano trovare il tempo per coltivare la preghiera
e la lettura e offrire un servizio qualificato, possano trovare la giusta serenità per incontrare le persone…? E
come pensare che la loro vita possa risultare attrattiva per dei giovani oggi?

Non sono che esempi, per segnalare la decisività del momento e la grande opportunità che il Signore
ci offre. Anche perché assumere con serietà questa “sfida” è mettersi in cammino per scovare nuove
opportunità, che non sempre riusciamo a riconoscere; ed è la possibilità di riprendere confidenza con il fatto
che c’è urgenza per tutti (preti, diaconi, religiose e religiosi, laiche e laici) di metterci in uno stato di
“formazione permanente”, laddove per formazione non si intende solo la necessaria preparazione teologica,
ma un itinerario di preghiera e spirituale, una partecipazione profonda alla vita liturgico-sacramentale, una
esperienza comunitaria vissuta.

Alla luce di ciò, mi pare opportuno che nel prossimo anno pastorale, facendo nostro e calando nella
nostra specifica realtà il cammino sinodale, lavoriamo a diversi livelli al fine di discernere bene la situazione
nelle differenti zone della nostra diocesi, di rintracciare le potenzialità che ci sono e magari non vediamo, di
ipotizzare modi nuovi di essere Chiesa nel territorio, di avanzare proposte per “cammini sperimentali”… Per
un lavoro come questo e così decisivo ci sarà bisogno dell’apporto di tutti: anche perché la diocesi è davvero
vasta e sarà indispensabile, se non vorremo essere ideologici e applicare un’idea preconfezionata alla realtà,
discernere che cosa ci è chiesto di fare nelle diverse situazioni. Un conto, ad esempio, sarà ciò che ci sarà
richiesto nella grande città, altro in zone di montagna o di campagna.

In questo orizzonte, faccio appello alla buona volontà e alla corresponsabilità di tutti. So molto bene
che, per diversi motivi, si può talvolta avere l’impressione, nella Chiesa, di essere richiesti di partecipazione
e di proposte, senza che poi si veda un seguito all’incontrarsi, al dialogo, alle proposte avanzate. So però
altrettanto bene che, senza questo rinnovato e leale sforzo, ci sarà difficile nel prossimo futuro condurre una
vita cristiana in cui sia evidente a noi stessi e agli altri che cosa siamo, Chi ci anima, che cosa ci appassiona
veramente e ci fa essere discepoli del Signore. Per parte mia, farò di tutto perché quello che vi propongo sia
il primo passo di un reale cammino di cambiamento.

In questo orizzonte dovrebbe apparire ugualmente evidente che sarà necessario rinsaldare o creare
delle strutture di corresponsabilità, che siano l’espressione della vita ecclesiale sul territorio.
È in vista di ciò che ho rinnovato, in una forma nuova, il consiglio episcopale, pensando sin da subito
che non esaurisca affatto la corresponsabilità con il vescovo, la quale dovrà invece beneficiare di altre figure
di responsabili nelle diverse zone della diocesi. Ma… un passo per volta e, soprattutto, facciamo passi che
siano il frutto dell’intelligenza credente e del cuore di tutti noi e siano il più possibile condivisi.
Mentre vi benedico di cuore, uno ad uno, chiedo umilmente a ciascuno di utilizzare il tempo estivo –
che si spera più sereno – per pregare per il cammino che si apre, per far emergere riflessioni e pensieri, per
domandarsi davanti a Cristo vivente che cosa ciascuno può realmente mettere a disposizione.
Vi saluto nel Signore con tanto affetto, mi affido alla vostra preghiera e vi garantisco, ogni giorno, la
mia.

Mons. Roberto Repole
Arcivescovo di Torino e Vescovo di Susa